È solo appoggiando la pellicola sbiadita ad un proiettore muto impolverato dagli anni d'inattività imbevuta di ricordi e tristezza che potrete davvero sentire Silent Movies. Assaporarne i contorni eterei che sfuggono non appena pare d'afferrarli, tra il marasma delle follie di Marc Ribot, intento a imprimere su una 35 mm ogni sfumatura del suo essere tutt'uno con la scienza della sei corde, con il suo modo di scavare a fondo le potenzialità espressive ed ogni via di fuga dalla realtà mediante lo strumento.
E i fotogrammi (immaginati, ripresi da altre pellicole, bruciati, scuri) rifulgono ad uno ad uno, scorrono dietro agli occhi, in un angolo del cervello, stralci di film incollati a mano. "Variation 1" è una stanza spoglia, un arpeggio che inizia a stenti, scarno, essenziale e che nasconde un segreto in riverberi blu. E la tristezza di "Delancey Waltz" è una piccola danza d'addio, che accompagna il vuoto sotto un cielo carico di pioggia, dietro ai vetri rotti di una casa sommersa dalla polvere. "Empty" è quel vuoto visto in precedenza che si colora di tinte scure, e a passi lenti si muove attraverso melodie affrante e meditabonde, che si infrangono nell'urgenza delle immagini accelerate di "Solaris", in un saliscendi simile ad un ballet mecanique acustico, che crea ansie, le ricompone in una melodia agghiacciante. E su una strada piena di polvere si apre il "Fat Man Blues", elettrico in punta di piedi, elettrico ma non scomposto, elettrico e amareggiato. Spettri in forma di rumore si aggirano nelle fredde strade di una città svuotata da ogni sensazione umana in "Postcards From N.Y.", rigurgiti in feedback, vento che spira tra gli interstizi di case abbandonate fino ad aprirsi sotto una luce al neon, arpeggiata con un tocco di bellezza unica. E poi il fermo immagine di Chaplin seduto assieme al monello, una sensazione di malinconie passate e spensieratezze melodiche, sul cui volto si dipinge l'amaro sorriso di qualcosa che non tornerà.
La pellicola brucia, il film non c'è più, rimane solo un silenzio pesante.
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