“Rapito” dell’83enne Marco Bellocchio è la conferma di un talento non ancora del tutto sopito. O meglio, il cinema italiano con qualcosa da dire.

La storia vera, ambientata tra il 1858 e il 1878, del piccolo Edgardo Mortara, ebreo di nascita strappato alla famiglia su ordine di Pio IX, il Papa Re, e cresciuto in Vaticano fino alla maggiore età (non fu il solo, la conversione forzata al cattolicesimo era una prassi governativo-papale dell’epoca), rappresenta il tentativo, invero non del tutto vacuo, di raccontare, come nello stile ultimo di Bellocchio, una vicenda centrale della storia italiana e scavare nel contempo tra le pieghe del malcostume o, nel caso specifico, nella prepotenza di un potere costituito, ai danni dell’uomo comune. E’ il Bellocchio degli ultimi anni, meno battagliero e sicuramente meno originale di quello caustico dell’esordio pre-sessantottino de “I pugni in tasca” o di quello arrabbiato e anarchico del decennio successivo de “Sbatti il mostro in prima pagina”, bensì più ponderato, fors’anche più rigoroso al dettaglio e alla messa in scena; è insomma il Bellocchio del “Traditore” che racconta Buscetta e la mafia o quello fluviale e impeccabile di “Esterno notte” alle prese con il caso Moro, la Dc, il terrorismo rosso, il Vaticano.

Ecco, il Vaticano. Da ateo convinto (come Buñuel prima di lui) Bellocchio ha il coraggio di mostrare il proprio anticlericalismo in (quasi) ogni film, quasi a voler additare l’istituzione cattolica per eccellenza a fulcro di qualsiasi malefatta italiana. Non la dottrina cattolica in quanto tale, bensì gli individui che la esercitano o l’hanno esercitata; non Dio ma l’uomo. E nel pantheon religioso di Bellocchio nessuno si salva: cardinali, vescovi, semplici preti, persino il Papa.

Pio Ix, Papa Mastai Ferretti, colui che più di tutti occupò il soglio di Pietro (31 anni, 7 mesi, 23 giorni) è visto qui come un Papa feroce, a tratti persino folle, superbo e altero nel suo voler perseguire l’ideale dello Stato Pontificio e disperato, epperò impotente nonostante il potere accumulato fino a quel momento, durante la breccia di Porta Pia e la nascita dello Stato Italiano, di cui si professò “prigioniero”. E’ un Papa severo, a capo di una Chiesa severa. Il Vaticano visto come sorta di collegio rieducativo per ebrei non convertiti al cattolicesimo, in cui i figli di questi potevano essere strappati all’affetto della famiglia e perseguitati fisicamente e psicologicamente in nome di una fede religiosa distorta e opprimente. Bellocchio non si ferma di fronte a nulla, e mostra anche l’attacco epilettico che subì Pio IX durante un conciliabolo piuttosto movimentato. Gli presta il volto l’ottimo Paolo Pierobon.

La figura di Edgardo è più complessa, e allo stesso tempo più pura. E’ quella di un bambino incapace di cogliere l’essenza delle cose, diviso tra la voglia di ritornare a casa dalla famiglia e la sensazione di dovere qualcosa a coloro che l’hanno rapito. Quasi come se fosse il Papa il proprio padre. Perfetta dunque la ricostruzione del nucleo familiare Mortara, coi propri riti ebraici e la cocciutaggine, soprattutto paterna, di voler portare in tribunale coloro che avevano portato via da casa Edgardo (su tutti il Vicario Pier Gaetano Feletti, colui che materialmente, su ordine papale, si prese la responsabilità, attraverso alcuni scagnozzi, di rapire il bambino, interpretato da un sobrio Fabrizio Gifuni). Sospeso fra Bologna e Roma, “Rapito” non disdegna nemmeno una critica piuttosto accesa alla stampa dell’epoca, rea di non aver capito inizialmente le ambizioni papali (almeno quella italiana) a differenza di quella estera (soprattutto americana) che osava sbeffeggiare il Papa descrivendolo come un ladro di bambini ossessionato dagli ebrei e dalla paura che essi potessero, penetrando in Vaticano, circonciderlo.

Curiosa invece la descrizione della comunità ebraica romana, a parole antipapale, nei fatti ossequiosa del potere temporale del Papa e perfino infida (si veda la figura di Sabatino Scazzocchio, interpretato da Paolo Calabresi), che prima assicura il padre di Edgardo di una pronta risoluzione del caso e poi s’inginocchia letteralmente ai piedi del Papa. E’ la filosofia del regista, anticlericale che non risparmia nessuno, siano essi cattolici o ebrei.

Certo, poi ogni tanto Bellocchio si lascia un po’ prendere la mano ed esaspera alcune soluzioni narrative (i giornali in cui le figure si muovono come dei cartoni animati; le tre croci che il Papa ordina ad Edgardo di fare con la lingua sul pavimento; il sogno del piccolo Mortara in cui Gesù scende dalla croce e se ne va come se nemmeno lui si sentisse in linea con le decisioni papali) e in genere i pochi effetti speciali utilizzati appaiono fin troppo “finti”. Frammezzo, inoltre, l’excursus processuale, girato come un giallo, sembra una versione primordiale di quello de “Il traditore”.

Ottima invece la fotografia di Francesco Di Giacomo: pastosa, tendente al marroncino. La Roma appena fuori il Vaticano brilla di luce propria, come le opere della “Scuola etrusca” ottocentesca.

Musiche incalzanti.

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