Costituisce principio abbastanza noto, anche in medicina, quello per cui il miglior modo per far morire un ente vitale (ad esempio anche un virus, o una verruca) è quello di nutrirlo e farlo crescere fino al superamento del limite sostenibile, facendolo così collassate fino alla distruzione (avviene anche per le stelle, che si autoalimentano fino a morirne). Tutte le discussioni ed i dibattiti attorno agli attuali problemi ambientali del nostro pianeta, a ben vedere, ruotano attorno a ciò: al fatto che le crescenti emissioni, la produzione di gas e la trasformazione della materia stanno alterando il globo, fino a farlo morire. E, passando dall'osservazione della natura alla prescrizione dei comportamenti morali, gli stessi filosofi classici ci ammonivano a non superare i limiti della morigerazione, a vivere nella aurea mediocritas dimentica di tentazioni eccessive, di coltivare la virtù della temperanza; inconsapevole emulo di quei pensatori, Marx nell'800 vaticinava il collasso del capitalismo avanzato anglosassone sotto il peso del surplus produttivo, spalancando così le porte alla rivoluzione comunista.

Nel suo piccolo, "La grande abbuffata" ('73) di Marco Ferreri riassume, nella descrizione di quattro amici che si rinchiudono in una casa per mangiare fino a morire, tutte le suggestioni innanzi descritte: a livello fisico, chi troppo mangia finirà per schiattare; a livello morale, il troppo crescere ci allontana dalla virtù e dalla temperanza, portando al suicidio la nostra stessa humanitas; a livello politico, la società capitalista viaggia verso il collasso da sovrapproduzione. La "bulimia", insomma, come vera malattia del nostro tempo e come chiave di volta per decrittare il mondo, con l'osservazione per cui quella messa in scena dal regista milanese è "bulimia" consapevole, voluta, divertita, tipica di una razza umana che, per parafrasare e tradurre il Roger Waters del 1992, si diverte a morire.

Ciò detto, piuttosto che spezzare una lancia a favore di Ferreri, che pur mi piace ed ha rappresentato un film urticante e coraggioso, preferisco lanciare una lancia acuminata contro questo film, che visto una prima volta mi piacque molto, rivisto mi ha stancato un poco, forse per il sottile ideologismo e moralismo che reca in sé, anche se il regista si affermava anarchico: i film e le storie a tesi sono fondamentalmente deboli ed invecchiano presto, anche se le tesi che affermano sono brillanti, e talvolta attuali come quella della "bulimia" come male del mondo contemporaneo. Questa debolezza risulta dal fatto che i lavori ci dicono ben poco se letti al di fuori della tesi del regista o dell'autore, oppure ancora se decontestualizzati dall'epoca in cui uscirono.

Lo stesso può dirsi de "La grande abbuffata", al dunque una sorta di gioco in cui si cimentarono, con successo, quattro grandi attori come Tognazzi, Noiret, Piccoli e Mastroianni, risultando, tuttavia, piuttosto antipatici nella descrizione dei quattro viziosi che, memori di Sade, si compiacciono della decadenza, del piacere fino a morirne, pur senza infliggere dolore ad altri come preconizzava il divin marchese.

Un film che non appare, dunque, classico, ma che, piuttosto, mi sembra invecchiato male, descrivendo il rapporto fra uomo-passioni-amicizia-morte in maniera molto meno umile, ma anche meno efficace, del quasi coevo "Amici miei".

Pollice parzialmente verso.

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