Con buona pace di detrattori e delatori, Indro Montanelli è annoverabile d'ufficio fra gli eterni illustri della cultura italiana, padre di un giornalismo "scomodo" per alcuni e terribilmente allettante per i futuri carta, penna, iPhone & tablet di oggi, Maestro di retorica ed eloquenza del tutto aliene dalla tradizione conformista belpaesana. Linciato e vilipeso per puro hobby a causa dei suoi neanche così forti legami con il Fascio d'Etiopia e dell'Agro Latino, accusato senza dignità di amicizie, avventure e intrallazzi giovanili aventi come comune denominatore manganello e olio di ricino, il Fuchecchiese non ha mai negato di essere stato dalla parte del Littorio per un modesto lasso di tempo, precisando di essersi guadagnato per la sua resistenza al mussolinismo una bella cacciata dall'Albo dei Giornalisti, nonché una condanna a morte sventata per intercessione dell'allora cardinale di Milano Ildefonso.

La filosofia montanelliana, radicata nell'impegno risorgimentale e post risorgimentale, è intrisa di un liberalismo a tratti utopistico e fantasioso, propugnatrice di un conservatorismo di destra slegato sia dall'autoritarismo totalitario, sia dal pericolo comunista, pericolo che ha strenuamente avversato sino all'essere gambizzato per mano degli estremisti, non contenti di seguire la massa dei calunniatori e dei caciaroni. Per anni fedele passeggero del crocchio reale del "Corriere della Sera", Montanelli abbandonò via Solferino quando la velatura sinistreggiante e filocomunista iniziò a minacciare seriamente l'ideologia dominante della testata milanese. Erano i non troppo spensierati anni del "Turiamoci il naso e votiamo DC" che lo spinsero a partorire il primogenito delle sue due creature editoriali, ovvero "Il Giornale". Sorto come elegante salotto cartaceo a metà strada fra l'omnibus e il quotidiano d'opinione, "Il Giornale" frullava audacemente cronaca, critica e disimpegno degli elzeviri, una sorta di contentino per inserzionisti, lettori del "di tutto un po'", vecchi liberal intellettuali da Caffé e persino per qualche "radical chic" un po' meno schizzinoso. Un salotto che presto finì nelle mani dell'azionista di maggioranza per antonomasia, Silvio Berlusconi: terminata la sua carriera come menestrello e canterino nelle navi da crociera, il futuro Imperatore della cintura modaiola e stravagante milanese si gettò a capofitto nell'imprenditoria del mattone, plasmando il quartier generale di Milano 2. Dalla cazzuola il salto al business televisivo fu rapido e alla fine dei Settanta Berlusconi iniziò a fare incetta di reti che componessero l'harem di TeleMilano/Canale 5. "Il Giornale" montanelliano, ben presto privo di editori e coraggiosi pronti a investire nel progetto, fu venduto "per quattro palanche" al patron di Arcore, felice di assommare qualche utile foglio di carta alle sue frequenze tv. Nonostante gli spettri e gli scheletri nell'armadio perennemente svolazzanti sulla testa di Silvio (affiliazione alla Loggia massonica P2 di Licio Gelli, presunti inciuci con la Mafia siciliana, retaggio degli "stallieri" di corte come Mangano e Dell'Utri, pioggia miliardaria di dubbia provenienza...), l'idillio fra Montanelli e il suo editore-salvatore cominciò e proseguì nella maniera più favorevole possibile, almeno fino al trapasso Ottanta-Novanta. Ed è qui che parte la monumentale biografia di Marco Travaglio, uno degli illustri della scuola montanelliana, colui che poco più che ventenne, lasciata la natia Torino, giunse al cospetto del Maestro e lo seguì ininterrottamente nella sua ultima fase di vita corporale e spirituale. Quella che ha voluto narrare.

Furono proprio le sempre più evidenti ravvisaglie della caduta della Prima Repubblica a infrangere il link Toscana-Lombardia. Dilaniata dall'ascesa impellente dei Lumbard di Umberto Bossi, sfiduciata dall'elettorato, in preda a intrighi di palazzo e di scantinati, ferita dai sanguinolenti attacchi del battaglione antisistema (Mafia e Br in primis), l'oligarchia partitocratica volgeva al tramonto: il sacro trittico Dc-Pci-Psi non solo aveva bisogno di ulteriori cortigiani per salvaguardare le poltrone di Palazzo Chigi, Montecitorio e Palazzo Madama (pentapartiti, governi di solidarietà nazionale eccetera), ma aveva persino unito le forze in un circuito di clandestinità e di illegalità sfociato nell'inchiesta di Tangentopoli. Nel bel mezzo di tali dinamiche non potevano che insinuarsi Berlusconi e il suo impero/carrozzone. Rincorso da giudici e nascenti pool desiderosi di indagare sulla reale provenienza delle cascate di denaro investito nel mattone e nell'occupazione dell'etere, Silvio stabilì definitivamente la sua "discesa in campo", a metà strada fra il calcistico e il populismo politico più becero, e chiamò a raccolta i suoi fedelissimi: nessuno poteva tirarsi indietro. Nemmeno Montanelli.

Il Fucecchiese non solo declinò gentilmente l'accorato invito a fare da promoter alla campagna elettorale dell'editore, ma giunse addirittura a colpire i suoi amici più intimi, in primi lo pseudo socialista Bettino Craxi, mentore della scalata al successo di Forza Italia. Fra Berlusconi e Montanelli iniziò dunque un'estenuante battaglia a colpi di mobbing, pressing e minacce: mentre dall' "ufficio stampa" del futuro Premier celebrità del calibro di Emilio Fede e Vittorio Sgarbi reclamavano la consegna della poltrona del "Giornale" ad un purista dell'ideologia Fininvest, lo stesso Berlusconi irruppe (senza avvisare il fondatore) all'assemblea del giornalisti, annunciando il loro arruolamento d'ufficio nell'esercito forzista. Fu la goccia che fece traboccare il vaso: Montanelli cedette la creatura che fondò vent'anni prima a Vittorio Feltri.

Privato del Suo "Giornale", il Maestro concepì la seconda e ultima produzione editoriale della sua vita. "La Voce", raffinato esempio di stampa alternativa, nacque dal coraggio di alcuni imprenditori e di personalità come Vittorio Corona e a pochi mesi dalla cacciata da via Negri era già in grado di sfidare le cifre della stamperia italiana. Per poco, comunque, dato che solo un anno dopo, nel 1995, il salotto montanelliano chiuse i battenti, soffocato dalle regole del mercato e dal contrattacco sottobanco e manifesto degli avversari. 86 anni, un altro mucchietto di bella carta sequestrato dall'ignominia italiana, Montanelli tornò al Corriere, ove si accoccolò dolcemente nella sua "Stanza" fino alla morte avvenuta nel 2001, anno in cui il suo ex editore, in pausa politica (o meglio all'opposione) dal 1995 al 2000, tornò al potere.

Una biografia ricca, dettagliata, viva, entusiasta, di un uomo criticato da ambo i lati, di un autentico professore dell'italianità linguistico-letteraria. Un uomo in grado di passare dall'austerità aulica dell' "annunziare" all'esterofilia satirica dei "radical chic" o all'eloquenza forse un po' troppo spinta, eppure terribilmente chiara del "turiamoci il naso". Un uomo che sognava la libertà del dibattito, la vastità contenutistica dell'opinione pubblica, la sconfitta dell'Autorità e della Censura di mercato. Un utopista, ma sempre il Decano del Giornalismo. Quello di un'altra Italia, altrettanto immaginaria. La Reale, infatti, non ha mai avuto l'onore di possederlo.

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