Per comprendere appieno le vicende (nonché le sventure) dell'(ex?) ugola d'oro più chiacchierata dei tempi moderni occorre fare un piccolo ma significativo balzo nel tempo. Mariah Carey debutta nel 1990 con Vision Of Love e per l'angelica ventenne acqua e sapone rappresenta l'inizio di una gloriosa carriera fatta sia di discese in stile Parco Divertimenti ma anche di scalate everestiane. L'omonimo primo album sforna altri tre brani numeri uno (Love Takes Time, Someday, I Don't Wanna Cry) e inaugura di fatto l'aureo decennio sotto l'ala protettrice della Columbia e, soprattutto, del talent manager Tommy Mottola col quale convolerà a nozze nel 1993 (condividendo momentaneamente la medesima strategia di Celine Dion, ovvero unirsi all'oldie René Angelil, suo indubbio mentore). Nel frattempo escono Emotions, l'Unplugged per MTV, il delizioso pluriplatinato e pluridiamantato Music Box - tanto semplice nel sound quanto amabile e avvolgente nella performance vocale di una novella Whitney/Aretha nel fiore degli anni - e la riuscita formula natalizia di Merry Christmas, con quel All I Want For Christmas Is You che ancora oggi riecheggia dalle vetrate delle cappelle ecclesiastiche agli pseudo Wal Mart del Liechtenstein.
A metà degli anni Novanta la premiata coppia Carey-Mottola mostra i primi segnali di cedimento: Mariah osteggia le scelte musicali imposte dal marito-manager, punta a un'immagine più adulta, R&B, anti-melassa, non vuole buttarsi nei flutti tragici del Titanic come la collega Dion e comincia a flirtare - prima timidamente e poi in maniera sempre più sfacciata - con artisti black, ghetto e filo ghetto. Daydream e Butterfly, con i rispettivi singoli di punta (Fantasy, One Sweet Day, Always Be My Baby, Honey, My All) vendono, stravendono e testimoniano una consistente ascesa in termini sonori ma Mottola e soci inaugurano le prime fasi di un discusso boicottaggio: canzoni destinate a un'accoglienza ancora più brillane - Butterfly, Breakdown, The Roof - escono scaglionati, solo in alcuni contesti geografici e non ricevono la giusta promozione spettante a una stella come Mariah. Che difatti straccia le carte matrimoniali con l'amato nel 1998 e fuoriesce, sbattendo la porta, dalla Columbia, non prima di rilasciare Rainbow, non scevro da altrettanti disguidi in termini di resa commerciale.
Chiuso malandrinamente e maldestramente il capitolo Columbia, Mariah impazzisce. Dichiarazioni scoordinate sul web e apparizioni a Total Request Live in veste di gelataia psicolabile a luci rosse la conducono al breakdown emotivo e al ricovero ospedaliero coatto, per non parlare della catastrofe annunciata di Glitter film+disco, stroncato da qualsiasi bipede sapiens e persino così scalognato da essere uscito nelle sale due giorni dopo l'11 settembre. La Virgin, con la quale aveva firmato un nuovo contratto discografico, la mette alla porta - risarcendola di pochi spicci milionari - e la abbandona al suo mesto destino. Neanche Charmbracelet risolleva le cose e così Miss Carey trama un comeback con i fiocchi, giunto puntualmente nel 2005 con The Emancipation Of Mimì: le vendite tornano ai livelli di Butterfly, We Belong Together rimane quattordici settimane in testa alla Hot 100 americana e il binomio critica-pubblico torna ad abbozzare caldi sorrisi. Mimì sarà comunque l'unica vetta memorabile del post Columbia in quanto i successivi E=MC2 e Memoirs Of An Imperfect Angel assieme alle rispettive code di estratti (con le eccezioni di Touch My Body e Obsessed) spingeranno la leva dei milioncini a livelli decisamente bassi se paragonati al passato.
Arriviamo, dunque, alla questione cruciale: Mariah Carey sta vivendo una seconda tranche in discesa? Gli antefatti e il travaglio per partorire il nuovissimo Me. I Am Mariah...The Elusive Chanteuse (cacofonia del titolo portami via) parrebbero confermare l'ipotesi: nel 2012 Triumphant, ballata allo zucchero bruciato con tanto di crew hip hop al seguito, neanche entra nei primi cento, obiettivo invece centrato da #Beautiful nella primavera successiva. Il buon successo non esorta l'artista a pubblicare l'album e solo sei mesi dopo pubblica l'ottima The Art of Letting (revival di Vision of Love), disgraziatamente passata inosservata. Stessa sorte accoglierà la recente You're Mine (Eternal), non troppo esaltata da fan e palati sopraffini.
Giunti a questo Elusive Chanteuse ci domanderemo: la cara Mariah avrà abbandonato finalmente quello scomodo binomio fra isterismo estetico (divismo a tutti i costi, photoshop a profusione, mise en pose al limite del trash) e sound filoghetto inadatti al suo lignaggio? La risposta è purtroppo/fortunatamente un nì: Mariah non rigetta la sua autocanonizzazione ma torna, in maniera più consistente e convincente, al quel decennio 90s che l'ha messa al mondo, allattata e consacrata. Ingabbiati (anche se non tutti) i rapper magnaccia e disseminati gli zuccherini dei primi Duemila, Madame Carey torna a sfornare un pop-soul retrò in salsa R&B serio, sensato, luminescente e vispo, mai eccessivamente noioso e ammorbante ma bensì denso di pathos e armonia compositiva. Elusive Chanteuse è difatti il disco (o un valido palliativo) che i nostalgici di Music Box, Emotions, Daydream e Butterfly attendevano da parecchie ere geologiche, un lavoro dalle molte sfumature, ispirazioni e prestiti, un piccolo scrigno pronto a tuffarsi nel contemporaneo tsunami junior delle varie Miley Cyrus.
Mariah parte con Cry e già parte la corsa all'evergreen: piano-gospel che si rifà palesemente al debutto. Seguono Faded e Dedicated (con il rapper Nas), ballate pop-hip pop decisamente fuori dalle griglie finto gangsta e più vicine ai territori di One Sweet Day. Con You Don't Know What To Do e Meteorite l'ugola d'oro esplora lidi danzerecci con invidiabile stile, rivolgendosi da un lato alla disco-funky e dall'altro all'house anni Novanta (già introdotta in Butterfly da David Morales). E se i rapper rimangono nelle loro suite hollywoodiane, arriva la nuova promessa R&B, Miguel Pimentel, per la semplice ballad R&B #Beautiful. Non vanno infine scartati la frizzante Thirsty (l'unico pezzo che magari gli aficionados della prima ora potranno detestare per l'eccessivo mood pop-rap), lo swing-funky con tanto di armonica a bocca countryggiante di Make It Look Good, la nenietta Supernatural (con tanto di "versetti" dei gemelli avuti dal secondo marito Nick Cannon) e la cover di George Michael One More Try, in perfetto mix gospel.
Stretta in corsetti luccicosi e maritata a Photoshop, Mariah Carey torna alla musica con la classe e la genuinità dei tempi ormai andati. Non avremo Vision of Love, Emotions, Hero, Dreamlover, My All e Anytime You Need A Friend, ma questi più che "surrogati" non potranno che ristabilire un decoroso ordine nei nostri ricordi circa la stella cadente del pop che fu.
Mariah Carey, Me. I Am Mariah... The Elusive Chanteuse
Cry - Faded - Dedicated - #Beautiful - Thirsty - Make It Look Good - You're Mine (Eternal) - You Don't Know What To Do - Supernatural - Meteorite - Camouflage - Money - One More Try - Heavenly (No Ways Tired/Can't Give Up)
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