Nel turbine di artisti più o meno leggendari che si sono susseguiti nel corso dei decenni, è normale che qualcuno resti indietro, dimenticato dalla massa di ascoltatori. Fa sorridere però il fatto che siano sempre i grandi artisti, quelli con la maggiore sensibilità, a diventare "di nicchia". E' un peccato perchè certi album darebbero grande piacere a tante persone, ma ci si ritrova sempre in quattro gatti a discuterne. 
E' questo il caso di Marianne Faithfull, ricordata più per una fatidica barretta di Mars, che per le sue eccezionali doti di interprete. Si può benissimo dividere la carriera della signora Faithfull in due parte nette e definite: una pulita e lineare, costellata di belle cover e guidata da una voce adamantina e infantile; l'altra fatta da molte liaisons dangereuse, dipendenza da eroina, tentativi di suicidio, ma soprattutto da bellissime canzoni interpretate con una voce nuova. La nuova voce di Marianne Faithfull è quella dell'esperienza, dell'innocenza che fugge via inseguita da strisce da cocaina e mozziconi di sigarette. 
Nel 1979 viene pubblicato "Broken English", capolavoro indiscusso di Marianne Faithfull. Chi in quegli anni seguiva quest'artista, sicuramente strabuzzò gli occhi nel vedere la copertina: una foto completamente saturata in blu la ritrare in un atteggiamento quasi annoiato e depresso, noncurante; unico punto di colore in questo mare di blu è rappresentato dalla brace di una sigaretta tenuta pigramente fra le dita. L'album parte con la title-track: scenari da Guerra Fredda e ritmo ossessivo ci trasportano in lande nelle quali inglese, tedesco e russo si confondono. La voce roca e incatramata si rompe spesso e volentieri, aggiungendo espressività e incertezza. Seguono tre gemme: "Witches' Song", "Brain Drain" e "Guilt" in cui si fa chiara la direzione sonora dell'album, orientato verso una perfetta fusione della rabbia del Punk, del ritmo del Reggae e delle innovazioni della New Wave. Spicca poi "The Ballad of Lucy Jordan", in cui ci confrontiamo coi sogni infranti di una donna, oppressa dalla routine familiare e pervasa dal desiderio struggente di evasione. "Working Class Hero", standard di John Lennon, vive una seconda vita reintrepetata da Marianne Faithfull, che la trasforma in un pezzo sinceramente indignato spruzzato da un sound rockeggiante.  L'album (breve, di solo 8 brani) si chiude con quello che a mio parere è il pezzo migliore e rappresentativo di questo periodo della Faithfull: "Why'd Ya Do It". Marianne Faithfull qui si prodiga in ogni tipo di turpiloquio: espliciti riferimenti sessuali e parolacce da scaricatrice di porto si susseguono per quasi 6 minuti raccontando una storia di gelosia morbosa e di un grave tradimento da parte di un uomo ("Why'd ya do it, she screamed, after all we've said / Every time I see your dick I see her cunt in my bed"). La rabbia è palpabile e trascinante, il j'accuse della Faithfull è potente e stranamente liberatorio anche per chi lo ascolta. Chi mai dovesse vivere l'esperienza del tradimento da parte della propria metà può benissimo imparare a memoria alcune strofe di questa canzone e poi sputarle in faccia al fedifrago: farebbe una splendida figura! 
Chi si ritiene un appassionato di musica non può non ascoltare questo disco, anche solo per l'importanza che Marianne Faithfull ha avuto negli anni '60 come musa dei Rolling Stone (Sister Morphine chi pensate l'abbia scritta?) e come amica dei Fab Four. La signora Faithfull è un'artista d'altri tempi, di quelle che non avevano paura di farsi vedere spettinate o con le unghie sporche. Completamente lontana da ogni divismo se n'è sempre infischiata di mostrarsi come modello di rettitudine. Per lei niente canzoni luccicanti e ammiccanti, solo tanto marciume e degrado. Niente tette al vento e balletti sensuali, solo una sigaretta, un microfono e delle corde vocali roventi come l'asfalto ad agosto.  "Broken English" è una delle tante pietre miliari misconosciute e sotterrate che aspettano solo che l'ascoltatore-archeologo le vada a rispolverare. 

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