1990: Il “Season’s End Tour” si è trionfalmente concluso, un successo strepitoso arrivato all’acme con la trasferta brasiliana, stadi esauriti, un successo che ha coinvolto tutti i membri della band inglese, tutto il management, la crew e chiunque abbia contribuito alla riuscita di un tour accolto principalmente con lo scetticismo creato dal cambio di leadership nel gruppo, quindi soprattutto una scommessa vinta da chi ha eletto Steve Hogarth il nuovo “generale” della squadra Marillica, che, pur con qualche carenza di fiato evidenziata specie in occasione di serate consecutive, è riuscito ad entrare nel cuore dei fans (con grande sorpresa mista ad ovvio smisurato compiacimento degli stessi membri della band), non ha fatto dimenticare "Fish", e nessuno gli ha mai chiesto di farlo, ma in assoluto non lo ha fatto rimpiangere da nessuno, anzi.

E’ dunque il momento di tornare al lavoro per i nuovi Marillion e sfornare il primo album interamente gestito insieme ad H, in quanto l’ottimo "Season’s End" era già a buon punto prima dell’arrivo del giovane vocalist, comunque frammento contribuente.
La lavorazione è intensa ed alquanto ispirata, specie dall’alcool che i musici ammettono di aver trincato a iosa durante le pause delle sessions, in uno scritto Mark Kelly (tastierista) ci racconta di una serata durante la quale tutti quanti, completamente carichi di tequila, si sono vestiti come messicani con tanto di poncho e sombrero e hanno ballato per ore la rumba sui tavoli...
Il vero dilemma (perché tutto liscio non va mai...) è dato dal fatto che il produttore viene incredibilmente sostituito. Questo taglia le gambe alla band, abituata ad essere prodotta in un caratterizzato modo ed a creare registrazioni, fusioni dei suoni ed incisioni finali con calma e controllo morboso da parte del produttore. Inoltre l’etichetta EMI vuole brani d’impatto immediato e che strizzino l’occhio alle charts ed alle emittenti radiofoniche.
Per tutte queste ragioni i missaggi e le versioni conclusive dei brani vengono preparati in dieci sole settimane da Chris Neil (famoso per aver confezionato singoli sventraclassifiche a ripetizione), un tempo brevissimo ed assolutamente inappropriato per una band raffinata come i Marillion. Il risultato è ovviamente sconfortante, molti pezzi di tastiera di Mark Kelly (il quale non gusta particolarmente la cosa) vengono tagliati dal produttore, gli assolo di chitarra sono accorciati e ridotti all’osso, la durata dei pezzi viene ridimensionata, ed in pratica sul mercato viene fatto pervenire un album del tutto dissimile da quello che la band aveva preparato in fase di elaborazione. Si salvano solo le splendide elegie di un sempre poetico Steve Hogarth, in collaborazione con John Helmer.

"Holydays in Eden", questo il titolo del LP, esce nel tardo 1991 (la EMI ne offrirà poi un ottimo remaster nel 1998 con tanto di secondo CD completo di demo e out-takes, così come per tutti gli album dei Marillion prodotti da loro fino alla chiusura del rapporto casa-gruppo), ed è anticipato dal singolo Cover My Eyes (Pain and Heaven). Già in questo brano si “gode” dell’imponente sostanza di cassetta imposta dalla casa discografica. Il brano è piuttosto pallido, un rock davvero easy listening, che piace alla gente, che vende molto... ci mancherebbe altro essendo stato creato apposta con questo presupposto, ma i supporters non vanno certo in ebbrezza ascetica nell’ascoltare il solco, essendo avvezzi a ben altro sound. Diciamoci però la verità: quale fan non ha mai cantato a squarciagola il tema di Cover My Eyes? Tutti noi l’abbiamo fatto e lo faremo ancora, il brano è commerciale, e per questo distratto ma piacente, attrazione per le masse, ancora oggi è amatissimo nei concerti, è pertanto inutile demolirlo più del dovuto. Così come lo sono altri brani, per esempio This Town, Holydays in Eden o No One Can (quest’ultimo veramente deprimente).
Si salvano dallo sfacelo invece il brano di apertura Splintering Heart, un rock prog ben congeniato, The Party, bel brano lento in minore con buona melodia e linea vocale, 100 Nights e Dry Land (quest’ultima è praticamente una cover riarrangiata, in quanto trattasi del brano di traino dell’unico album degli How We Live, l’ex band di Steve Hogarth, distribuito dalla CBS qualche anno prima), quest’ultimo si può forse definire il miglior risultato di un’orrenda e sommaria produzione nonché di una gestione troppo schierata al soldo del pop da parte della EMI, che portano “Holydays in Eden” ad essere senza alcun dubbio una delle peggiori uscite discografiche dei Marillion.
Artisticamente un mezzo (magari anche tre quarti) cataclisma, però altroché se ha venduto...

Ma che i “MarillionManiacs” non si diano tormento, tra tre anni le afflizioni verranno retribuite con gli interessi...

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