Cosa ci propongono i vecchi Marillion in questo autunno 2009? Un album di vecchi brani riarrangiati in chiave acustica: una sorta di greatest hits con il contentino della nuova veste sonora o un vero e proprio nuovo lavoro? Un po' l'uno, un po' l'altro, a seconda di come si consideri l'operato e la carriera ormai quasi trentennale dei cinque ex ragazzi inglesi, già alfieri del new prog.
Certo, questo "Less Is More" (L=M), prodotto nel corso dell'ultima estate e che a breve sarà associato ad un tour ovviamente acustico (in Italia unica data, il 16 novembre, nella splendida cornice della chiesa di Santa Maria all'Ara Coeli a Roma, chi può non se lo perda), non è esattamente il successore dell'ottimo "Happiness Is The Road", ma non è neppure un'inutile raccoltina messa in piedi per raccattare quattro soldi dallo zoccolo duro dei fan. Perché i brani, scelti qua e là (ma non a caso) nell'intera "fase H" della carriera (da quando cioè, nel 1989, il piccolo Steve Hogarth entrò nel gruppo dopo l'abbandono-cacciata del gigantesco - in molti sensi - Fish, il frontman degli esordi e dei successi mondiali), hanno subito un'opera non di semplice alleggerimento, ma quasi di spoliazione, destrutturazione e rivestimento. Che in quasi tutti i casi, pur mancando la veste più propriamente elettrica, li ha arricchiti di nuove sfumature, di piccole perle elargite a piene mani dai membri della band (concetto che ben si abbina al titolo dell'album, appunto "Meno è Più"). Dodici vecchi brani, quasi un'ora di musica che contrariamente a quanto si poteva temere risulta ricca di novità e di freschezza creativa.
E così "Hard as Love", il capitolo più duro del capolavoro Brave (e forse dell'intera carriera marillica), acquista una veste soffusa, con uno splendido piano ad accompagnare l'intenso cantato di Hogarth e una cadenza in grado di rapire l'ascoltatore.
Così "Quartz", chicca elettrica da Anoraknophobia, perde la sua veste funkeggiante, con quel basso che ti strappava quasi i battiti dal cuore, per vivere tutta sul meraviglioso lavoro di God Steve Rothery, chitarrista mai abbastanza celebrato.
Sono tante, tra i dodici brani, le vere perle, dalla rilettura di due capolavori come "Out of This World" e "Interior Lulu" (rispettivamente da "Afraid of Sunlight" e "Marillion.com") al recupero di brani "minori" come "Go" e "Wrapped Up In Time" (unico estratto da "Happiness is The Road") che acquistano sicuramente qualcosa rispetto agli originali, senza perdere peraltro in incisività e forza.
L'album contiene anche un inedito, "It's not Your Fault", una ballad che, dopo essere rimasta esclusa dagli ultimi tre lavori della band (il classico scarto di magazzino), viene premiata per l'attesa con questa delicata veste acustica, il classico duetto piano-voce con Mark Kelly a contendersi il proscenio con mister H. A chiudere, il giochino della hidden track (che poi tanto nascosta non è, gli amanti del gruppo riconosceranno subito il brano, aiutino, è tratto da "Afraid of Sunlight" ed è un excursus in territori Usa, con richiami BeachBoysiani).
In sintesi, un disco per aficionados ma che potrebbe conquistare anche chi con esso si accosti per la prima volta alla band. Un disco in cui i Marillion dimostrano la loro intatta voglia di suonare, di divertirsi, di sperimentare nuove vie, di commuovere i fans e - magari - di conquistarne di nuovi. Citazione d'obbligo per Steve Hogarth: dopo 20 anni è finalmente riuscito a scrollarsi di dosso l'etichetta di "sostituto di Fish", con qualità vocali fuori dall'ordinario e un contributo alla fase creativa del gruppo ben maggiore del boscaiolo scozzese.
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