Tiro le somme della giornata, quasi ogni notte, davanti alla televisione. È una sorta di rituale, uno dei pochi che mi concedo. Qualsiasi cosa sia andata storta quel giorno, ho la possibilità di focalizzare quel poco di attenzione che mi è rimasta su delle immagini in successione casuale che scelgo, verosimilmente, come i miei ultimi, confusi, ricordi. È così che deve essere andata anche quel sabato notte. Dopo una pigra e meccanica panoramica delle programmazioni, tra una rassegna stampa e un soporifero talk-show, tra una telepromozione e un paio di tette in vendita, per qualche motivo devo essermi fermato su Rai Tre (col senno di poi divenne tutto più chiaro). Enrico Ghezzi ha l'aria (e i capelli) di chi si è appena svegliato, mentre io riesco a malapena a tenere le palpebre aperte; basta poco che il suo argomentare asincronico diventa più efficace di una tazza di camomilla. Un paio d'ore dopo mi risveglio straniato e intorpidito; un sottofondo di pianoforte liquido, vagamente jazzato, accompagna un agghiacciante primo piano di un volto femminile in stato catatonico, se non addirittura senza vita. È tutto molto inquietante e al tempo stesso ipnotico. Mi sento disturbato, e riprendo sonno solo nelle prime ore del mattino.

Qualche tempo dopo realizzo che si trattava di "Dans Ma Peau - Nella Mia Pelle", pellicola francese del 2002 diretta e interpretata da Marina De Van, fino ad allora una perfetta sconosciuta per me. Ci penso bene prima di addentrarmi nella visione del film; il ricordo di quella sequenza era vago, ma l'effetto della sua potenza visiva era ancora ben definito. Alla fine, la curiosità è stata più forte di qualsiasi remora "psicologica".

La storia in sé è alquanto ordinaria, e la routine rappresentata ha un che di squallido e, a tratti, noioso. A tenerla in piedi è una De Van di impressionante bravura (mimica ancor più che recitativa in senso stretto), e un sonoro che corrobora la sensazione di raccapriccio delle scene più crude. Protagonista assoluta è Esther, con la sua mente e, soprattutto, con il suo corpo. Esther è una donna non molto avvenente, eppure perversamente magnetica; ha un fidanzato amorevole, un'amica che ritiene fidata e una carriera professionale soddisfacente. Ad una festa, inciampa su degli attrezzi in giardino, ma si accorge di essersi ferita seriamente a una gamba solo qualche ora dopo; questo evento, inizialmente percepito come irrilevante, segnerà l'inizio della fine. All'ospedale rifiuta di sottoporsi ad un trapianto di pelle che rimedierebbe agli inestetismi della vistosa ferita. Qualcosa è scattato nella mente di Esther; forse un trauma che riaffiora, o semplicemente la scoperta, intima e perversa, di provare piacere nel ferirsi, al di sotto della quale si nasconde un fortissimo, lacerante disagio interiore. Allo spettatore non è concesso sapere come stiano realmente le cose; per tutto il film attenderà invano anche un solo flashback che possa chiarire ogni dubbio ermeneutico. La stessa protagonista non vuole dare spiegazioni, e il tempo per cercarle da soli è troppo poco. Di fronte alle iniziali perplessità dell'amica (che di lì a breve diverrà gelosa della sua promozione) e del fidanzato, Esther reagisce quasi inebetita, risponde lapidaria e spaesata, ma riesce in qualche modo ad eludere ulteriori sospetti. Tuttavia, la giovane donna si è ormai addentrata in un tunnel senza luce; finirà con l'alienarsi da qualsiasi dimensione sociale e affettiva, perdendo e ritrovando se stessa nella sola, allucinante, automutilazione. Secondo una spiegazione più o meno condivisa del fenomeno dell'autolesionismo, potrebbe trattarsi di una forma estrema di comunicazione, dove la sofferenza interiore trova una via d'uscita attraverso la dimensione corporea, e dove il sangue si sostituisce al linguaggio. Ma l'atteggiamento di Esther, che custodisce gelosamente le sue ferite, e le consuma in un rituale strettamente privato, complica il lavoro di interpretazione. E tu, spettatore, sei impotente come chiunque altro le stia intorno. Se vuoi, puoi startene lì a spiarla dallo schermo; puoi incrociare furtivamente il suo sguardo glaciale, puoi immaginarne il piacere mentre il sangue le colora il viso, e puoi impietrirti quando una lacrima disegna una traiettoria ripida e fugace su quello stesso viso, poco prima solcato lentamente dalla lama. La tua partecipazione, però, sarà soltanto voyeuristica. Tu non sai niente del suo dolore; non c'è empatia, e lei non cerca affatto la tua compassione. È la sua pelle e ne fa quello che vuole! La incide, le piace assaporarne la consistenza, e quando vuole preservarne la freschezza del contatto, prova a conservarla mediante un trattamento di concia rudimentale. Il tutto senza emettere un solo gemito di dolore. Potrebbe anche trattarsi di un appagamento autoerotico spinto ai limiti, e se così fosse, perché mai dovresti fermarla?

Sono, quindi, numerose e aperte le interpretazioni per questa pellicola in bilico tra il drammatico, senza essere strappalacrime e, nel senso più vasto del termine, l'horror, laddove un primo piano degli occhi di Esther vale tutti gli sbudellamenti a oltranza delle ultime pellicole di genere. È una storia ordinaria, dicevo all'inizio, perché purtroppo potrebbe essere quella di molte persone. Ma è un dramma che, più che commuoverti, ti sconvolge, ti fa gelare il sangue. Ti annichilisce.

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