„All the things I‘ve done and see

still I don’t know don’t know what it means

to be human”

da “To be Human”

Quando Marina (ex „and the Diamonds”) ha fatto uscire “Handmade Heaven”, il primo singolo da “Love and Fear”, sono rimasti tutti tendenzialmente scioccati. Un nuovo nome che la rendeva più comune (il solo nome proprio “Marina” come una qualsiasi cantante uscita da un talent) e un singolo all’apparenza molto semplice. La semplicita è qualcosa di positivo o negativo? Eh, bella domanda. In questo caso, la semplicità sembra una necessità e l’unica via possibile sia per l’album che per Marina stessa.

II cambio di nome, la riduzione all’essenziale sia a livello d’immagine (la cantante appare bellissima sulla copertina) che musicale, sono collegati. Pare quasi che quella ragazza che ci ha affascinato con i suoi pensieri contorti, i suoi sentimenti cupi, la voce malleabile e una scrittura fuori dal comune abbia fatto posto a una donna che ha raggiunto un punto di non ritorno: la tranquillità.

E così rispetto al disco precedente, all’insegna di un pop sofisticato e dai toni oscuri, ci ritroviamo davanti ad un album che si può definire quasi new age. In realtà si tratta, a detta dell’artista, di un doppio concept album che vuole, attraverso due emozioni comuni a tutti, l’amore e la paura, descrivere l’essere umani.

Ed ecco che a furia di riascoltare questo album, diventa chiaro l’intento del disco: consegnarsi alla verità e non aver paura di mostrare anche lati che magari possono sembrare deboli, banali o frivoli. Ed è così che un pezzo semplicissimo come “Orange Tree” (“Flowers in my hair// I belong by the see//where we used to be// sitting by the orange trees”) appare sì leggero, ma assolutamente credibile (purtroppo non si può dire lo stesso di “Baby” unica nota stonata nel disco). Il brano che racchiude l’essenza dell’intero disco è “To Be Human”, un inno all’unione nella diversità e all’impossibilità di capire completamente il senso delle nostre esistenze basato su un cantato che mette ogni nota al posto giusto e sfiora, nel ritornello, melodie etereo che si avvicinano quasi a un canto ecclesiastico.

A livello musicale, pianoforte ed elettronica leggera dominano la scena. I suoni sono nitidi nella prima parte del disco (Love), mentre si incupiscono e diventano più dark nella seconda parte del disco (da segnalare la splendida chiusura con “Soft to be strong”).

E così Marina quasi raggiunge la meta. Dico quasi perché il fatto di definire questo disco come un doppio concept album è a parere di chi scrive una razionalizzazione che va nella direzione opposta rispetto alla semplicità dell’intero progetto. E alla fine Marina si ritrova UMANA tra la ricerca della naturalezza e le complessità dei suoi pensieri.

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