Di questo film solitamente si citano due cose: il titolo inglese Black Sabbath, che poi è diventato il nome della celebre band heavy-metal; e il sorprendente finale in cui, mentre Boris Karloff in sella a un cavallo pronuncia le frasi di commiato, la telecamera arretra e ci svela la finzione della messa in scena (il cavallo è un manichino, il cielo un fondale, l'ambientazione uno studio cinematografico).
Al di là di questo, I tre volti della paura è un pregevolissimo esempio di horror a episodi come andavano di moda negli anni sessanta e, nell'ambito del cinema di Mario Bava, si segnala per la (relativa) ricchezza della realizzazione, dovuta ad una coproduzione italo-francese che riuscì a coinvolgere nel progetto anche il leggendario Karloff. Formalmente raffinatissimi, i 3 episodi sceneggiati da Marcello Fondato e Alberto Bevilacqua si differenziano per lunghezza, genere e ambientazione: si va dal thriller in un contesto moderno ("Il telefono") al gotico in costume ("I Wurdalak"), alla storia di fantasmi ("La goccia d'acqua").
L'esplicita intenzione è quella di costituire una trilogia del fantastico che, spaziando attraverso vari registi, trovi nella "paura" l'elemento unificante. I riferimenti letterari sbandierati nei titoli di testa degli episodi (rispettivamente Maupassant, Aleksei Tolstoj e Cechov) sono piuttosto pretenziosi, in particolar modo quello a Maupassant, visto che il racconto ispiratore in realtà è di F.G. Snyder.
L'introduzione e l'epilogo sono interpretati da Boris Karloff, anche protagonista dell'episodio più lungo, quello dei vampiri. Nonostante l'eccelsa interpretazione, "I Wurdalak" risulta forse il momento meno interessante della pellicola: la storia del vampiro che nel giro di una notte contagia un'intera famiglia è prevedibile, verbosa e tirata per le lunghe, nonché troppo debitrice degli horror di Corman-Poe. Figurativamente invece siamo di fronte a uno dei vertici del cinema di Bava: l'ambientazione gotica è l'occasione per il regista di sfoderare tutto il suo talento di fotografo ed esperto manovratore di luci e ombre, capace di dare vita ad atmosfere cupe e rarefatte, fra nebbie persistenti e irreali lampi di colore.
"Il telefono" è un piccolo thriller ricco di suspense costruito sul classico espediente delle minacce telefoniche, associato ad un elemento piuttosto scabroso per il pubblico dell'epoca, cioè il rapporto omosessuale che lega i due personaggi femminili (uno dei quali è interpretato dalla conturbante Michèle Mercier). Pur non potendo fare sfoggio dei consueti guizzi scenografici e fotografici, Bava si dimostra maestro nel valorizzare con la forza della tecnica registica i pochissimi elementi (una stanza e tre personaggi) sui quali è costruita la vicenda.
Le vette sono però raggiunte nell'ultimo episodio, di certo il più suggestivo e malsano dei tre. La storia dell'infermiera che ruba l'anello a una morta ed è perseguitata dal suo fantasma viene trasformata da Bava in una terrificante sarabanda di effetti capaci di scuotere realmente i nervi dello spettatore. Gli aspiranti registi di horror dovrebbero studiare fin nei minimi dettagli questo "La goccia d'acqua", perché è un esempio eccellente e ancora attuale di come si costruisce cinematograficamente la paura, attraverso il lento e ossessivo accumulo di impressioni sonore (il ronzio della mosca, il suono ipnotico delle gocce d'acqua) e visive (il volto della morta deformato in una smorfia agghiacciante).
Il senso di disagio e inquietudine che si prova al termine è il necessario preambolo al ribaltamento ironico-grottesco del celebrato finale con Boris Karloff, dove con un colpo di genio e un'autoironia magistrale vengono svelati i "trucchi del mestiere" e la finzione soggiacente al film. Mettere paura è un gioco, il cinema stesso è (implicitamente) un gioco. Se Bava è stato solo un "mestierante" - come a lungo hanno snobisticamente sostenuto i critici nazionali - certo non c'è mai stato nella storia del cinema un mestierante tanto capace di coniugare talento e lucidità: straordinariamente creativo nella padronanza del mezzo, ma anche spirito incline ad approfondire l'aspetto ludico del cinema, a giocare con le convenzioni, a mettere in discussione le regole codificate con la libertà che soltanto la produzione "di genere" poteva offrire, e con il gusto dell'ironia e della dissacrazione che solo gli Autori più consapevoli possiedono.
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