E' singolare che il primo thriller italiano si apra nello stesso luogo - Fiumicino - in cui vent'anni dopo si sarebbe aperto l'ultimo capolavoro del genere, l'argentiano "Tenebre". E' altrettanto singolare che uno dei protagonisti de "La ragazza che sapeva troppo" - John Saxon - sia, al contempo, fra i principali attori impegnati da Argento nel suo ultimo grande film. E' parimenti singolare che il film di Bava narri le storie di una straniera giunta in Italia per fare la turista ed invischiata, suo malgrado, in una storia più grande di lei, fatta di delitti e misteri, un po' come avveniva ai protagonisti di quasi tutti i migliori film di Argento, da "L'uccello...", passando per "Profondo Rosso" ed il menzionato "Tenebre". E' decisamente singolare che le suggestioni della protagonista del film di Bava derivino in gran parte dalla lettura dei romanzi gialli, come sarebbe avvenuto in "Tenebre", ma in prospettiva decisamente rovesciata...
Se i giallisti sanno che tre indizi fanno una prova, potremmo spingerci a dire che la visione de "La ragazza che sapeva troppo" ('62) rappresenta non solo l'archetipo dell'intera cinematografia di Argento, ma, per filiazione indiretta, di tutto il cinema italiano di genere, che, con poche eccezioni - ascrivibili allo stesso Bava! - ha sostanzialmente reiterato, nei decenni successivi, quest'opera del maestro d'origine ligure.
Senza dilungarmi troppo circa la trama del film, in parte anticipata in parte troppo gustosa per essere compendiata in poche righe, osservo come in questo suo primo giallo (i precedenti lavori di Bava vanno ascritti, infatti, al "gotico") il regista abbia fissato i canoni del genere non tanto sotto il profilo narrativo, quanto soprattutto, sotto il profilo della messa in scena e dell'ambientazione della storia.
Mentre i gotici precedenti - correlabili a certi lavori dell'inglese Hammer - erano contraddistinti, come tutto il cinema di genere, da un'ambientazione rurale, i gialli di Bava sono tipiche storie urbane, in cui i protagonisti si perdono in un dedalo di vie, strade, palazzi, ascensori, perdendo prima l'orientamento, poi la ragione stessa. E' un modo, intelligente e non scontato, di provocare ansia nello spettatore, che condivide con il protagonista di turno (nel nostro caso, una giovane turista americana), un progressivo straniamento ed una perdita delle coordinate spaziali, e temporali, nelle quali si orienta l'individuo. Questa tecnica permette inoltre al regista di stornare l'attenzione dell'investigatore - e dello spettatore stesso - dai particolari essenziali della vicenda, giungendo, più o meno a tre quarti di film, ad abbandonare ogni tentativo di decrittare il reale, di conoscere l'identità dell'omicida, o, semplicemente, di poter anticipare il finale stesso della storia.
Accanto a ciò, va colta la particolare cura della fotografia, in rigoroso bianco e nero, che caratterizza il film: memore della scuola espressionistica tedesca, Bava alterna campi aperti caratterizzati da una luce particolarmente intensa (suggestione che proprio Argento farà sua nel sopraccitato "Tenebre") a riprese in spazi interni in cui predomina il buio, talora squarciato dalle luci di scena, con tagli innaturali ed artificiosi. Si prenda qui l'inquietante scena in cui la protagonista entra in un palazzo deserto della Roma - Coppedè, giungendo fino ad lungo corridoio nella soffitta del palazzo, illuminato da potenti lampadine che, tuttavia, fanno intuire il buio delle stanze latistanti, nelle quali può nascondersi il maniaco di turno: la luce come guida della protagonista e del suo cammino, da un lato, ma anche linea di demarcazione fra il chiarore (la certezza) ed il buio incombente (l'incertezza, la morte), con effetto decisamente ansiogeno per lo spettatore.
Il gioco di luci permette inoltre al regista di lavorare per ellissi narrative, in scene che, astratte dalla storia narrata, hanno ritmo ed andamento magistrale: si pensi alla ripresa dei campanili di Trinità dei Monti riflessi in una pozzanghera: in un primo momento, notturno, la pozzanghera viene ticchettata dai primi gocciolii di pioggia, che distorcono l'immagine riflessa, per passare poi ad un secondo momento, mattutino, in cui, finito il temporale, la chiesa riflessa nella pozzanghera ci appare in tutto il suo nitore. Anche qui assistiamo, simbolicamente, alla frattura fra la notte, la tempesta, l'irrazionale, ed il giorno, la luce, il razionale.
Mario Bava non sembrava prendere troppo sul serio il suo cinema, qualificando i suoi film come prodotti a basso costo (e, spesso, scarso successo), girati con mezzi di fortuna e senza troppe pretese. Non sapremo mai se si trattasse di falsa modestia, o di una forma di understatement da gentiluomo d'altri tempi, come parrebbe suggerire la visione di questo film, consigliato ovviamente a tutti.
Carico i commenti... con calma