Nessuno pensava:«se muoio»; ma tutti sentivano un'angoscia che opprimeva e tutti pensavamo: «quanti chilometri ci saranno per arrivare a casa?».

L'angoscia di uomini comuni, chi l'insegnate, chi il carpentiere, chi il ragioniere, uomini prima di tutto, che il Duce lo avevano visto solo dipinto in fotografia. 230.000 uomini, dei quali meno di ventimila tornarono a casa. Quell'incessante il pensiero di casa. «Sergentemagiù ghe rivarem a baita?» (Sergente maggiore, ci arriveremo a casa?): una domanda che diventa un'ossessione e marchia a fuoco i disperati fuggiaschi. Alcuni erano già inviati in Etiopia, Spagna, Albania o in Grecia. Stufi della guerra, stufi dell'Italia. Quell'Italia che comunque era l'unico luogo che potessero ancora definire casa, così lontana e remota. Impensabile che per il volere di un uomo solo, così tanti abbiano dovuto perire.

Perché gli italiani impegnati in questa assurda operazione militare dovettero soffrire le pene di un inferno bianco e senza fine, gelido e crudele, così lontano dalla propria realtà di vita quotidiana, così come la generazione prima aveva dovuto patire in egual maniera nelle trincee sul Carso e a Caporetto. Anche sul Don dovettero soffrire la tragica vita di trincea, con la scabbia e i pidocchi, con il rancio disgustoso e il misero quartino di vino a Natale, che a loro sembrava un dono dal Cielo. Per che cosa? Per una guerra che nessuno di loro avevo voluto e che tutti dovettero passivamente subire.

Da questo inferno Mario Rigoni Stern è tornato ed ha esordito letterariamente raccontando questa impresa compiuta a piedi insieme qualche migliaio di disperati e sbandati. Il romanzo inizia subito nel bel mezzo dell'azione, nella trincea, senza introduzioni o annosi prologhi: c'era la guerra, punto. Il perché e il per come non è importante.

Rigoni Stern riconosce ai russi il loro diritto di difendere la propria e riesce a comprendere il nemico, messo alle strette dagli invasori. Si immedesima nei sovietici. Ma allo stesso tempo narra il proprio dramma, nel quale si evince che in guerra due schieramenti opposti sono due facce di un'unica medaglia. Nessun vincitore, nessun vinto. Poi Stalingrado, di cui distingue solo i bagliori che illuminano il cielo a notte, e che gli alpini intravedono fievolmente all'orizzonte. E poi il fronte degli alpini circondato, la marcia di 17 giorni, la divisione Tridentina che sfonda l'accerchiamento, uno sfondamento dettato non dal valore o dall'eroismo, ma dalla disperazione più pura, e infine il lungo ritorno fino a casa, il pensiero perenne dei cari da riabbracciare, alla faccia di duci, führer, fascismi, nazionalsocialismi e altre schifezze simili. Il 26 gennaio 1943 a Nikolaevka. Quella maledetta Nikolaevka con 40 gradi sotto zero, in cui quasi tutti i compagni con i quali si è fatto amicizia periscono. L'estenuante marcia al gelo della steppa, fra i piccoli villaggi. Traspare soprattutto la grande differenza fra italiani e tedeschi nei confronti dei poveri contadini russi, presi a mitragliate dai nazisti, mentre gli alpini pronunciavano un educato "Spaziba" a chi offriva loro un tozzo di pane. "Italiani brava gente", nel bene e nel male. Agghiacciante.

Rigoni Stern racconta il tutto con una naturalezza incredibile, uno stile dialettale, come se stesse raccontando il tutto davanti al fuoco del camino nella sua baita. Un passo autobiografico drammatico che ha rappresentato un macigno sul cuore dell'autore, almeno fino al momento della pubblicazione.

Grande spunto di riflessione, a mio modesto giudizio: rendiamoci conto in che razza di tempi d'oro viviamo ora, presi come siamo dai problemucci di lusso, mentre questa gente era costretta mangiare pelli di patate nelle ceneri di una isba abbandonata. Pensiamo a agli oltre 180.000 uomini che la famiglia non l'hanno più riabbracciata e che sono caduti sulla fredda terra di Russia, per sempre.

« Noi, banda di straccioni. Stracciati, sporchi, barbe lunghe, molti senza scarpe, congelati, feriti.»

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