Dura la vita per un compositore di classica, se nasci in Inghilterra. Nella patria di Beatles e Stones ti guardano strano se i tuoi riferimenti sono Britten o Harvey (per esempio) invece di Lennon-McCartney. Così bisogna inventarsi qualcosa per guadagnarsi pane e pubblico. In "Blood on the Floor", scritto nel 1993-96, Mark-Anthony Turnage mischia le carte in tavola e affianca a un ensemble da camera di impianto tradizionale un trio jazz, composto in origine da John Scofield (chitarra), Martin Robertson (sax) e Peter Erskine (batteria).

Il risultato è un brano di ampio respiro (68 minuti) suddiviso in nove parti, interamente strumentale e dalla natura ibrida, essendo ben posizionato ora nei binari della scrittura contemporanea, ora in quelli delle sonorità fusion.

Il titolo è preso a prestito da un dipinto di Francis Bacon, che ha suggerito a Turnage le prime immagini musicali; ma il sangue per terra si riferisce soprattutto al tema della droga e della tossicodipendenza come attestano i titoli di certe sezioni del pezzo: "Junior Addict" o "Needles", o ancora "Elegy for Andy", il fratello minore del compositore morto per overdose.

Così il lavoro è costruito a pannelli, con una marcata alternanza lento/veloce nei vari episodi in cui la compagine strumentale è sempre diversa e ha quattro momenti solistici affidati, nelle sottosezioni, a corno, flauto, trombone e duetto di trombe. Per il resto, la parte del leone la fanno chitarra, sax e batteria, che si integrano in maniera efficace al resto del gruppo orchestrale.

"Blood on the Floor" è dunque un riuscito esempio, più che di contaminazione tra generi musicali, di coesistenza tra linguaggi diversi e caratterizzati storicamente. Un ascolto interessante per chi non ama gli steccati nella musica d'oggi, sia essa contemporanea o jazz. E per chi sta dalla parte di un compositore (di classica?) nato in terra d'Albione.
 

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