La mia conoscenza (non musicale) dei Beatles è tutta racchiusa in questo libro.

È un libro che mi ha permesso di immergermi nella vita dei 4 di Liverpool, e nelle ragioni della loro miracolosa unione. Ne sono uscito arricchito – e non solo nella conoscenza del gruppo.

Se lo leggerete, conoscerete i Beatles prima della gloria, conoscerete i loro sogni, e i loro vuoti interiori colmati dalla musica.

Il racconto della morte di Julia, la madre di Lennon, a causa di un poliziotto ubriaco, solo qualche mese dopo che John aveva scoperto che lei era sua madre, non potrà non toccarvi.

Una delle pagine che vi lasceranno increduli, è quella del giorno dell’audizione alla EMI, davanti a George Martin. Quel giorno, i 4 non colpirono il produttore per la loro musica, ma per la loro personalità. Le canzoni che proposero furono oscene. Quando Martin li interruppe e chiese loro: “C’è qualcosa che non va?”, Harrison rispose: “Non ci va la tua cravatta”. Si ruppe il ghiaccio, e dopo un po’, il produttore, gentleman inglese inappuntabile, arrivò a piangere per le risate. Per premiarli della loro simpatia, li scritturò – senza però avere troppe speranze…

Un capitolo per riflettere è quello che riguarda la Beatlemania. L’autore cita una frase di Sant’Agostino: “Talvolta si piange di più per le preghiere esaudite che per quelle non esaudite”. I Beatles sognavano di diventare famosi, ma “dopo l’euforia iniziale, cominciammo a ripensarci: sognavamo di diventare famosi, non di essere sbattuti da un albergo all’altro, in mezzo a pazzi che urlavano ogni volta che ci vedevano”.

E poi i “privilegi” del successo: la droga, le groupies, le prostitute d’alto bordo, e anche i giornalisti e i poliziotti, nei loro festini dopo i concerti. Come disse Lennon: “Un “Satyricon”. Eravamo dei Cesari. Tutti sapevano quello che facevamo, ma nessun giornale ne parlò mai, perché i giornalisti sinceri avrebbero perduto la droga e le puttane che noi gli davamo gratis”. Ad essere giornalisti sinceri, c’era tutto da perdere e niente da guadagnare…

Poi la scelta di lasciare i concerti. Come disse Ringo: “La gente stava distruggendo la nostra capacità di suonare. Con tutte quelle urla, nemmeno ci sentivamo. Inoltre, in alcuni concerti, poiché a nessuno interessava la nostra musica, noi non ci impegnavamo. Spesso non davamo nulla. Smettemmo prima che gli altri se ne accorgessero”.

Un altro bel capitolo è quella che tratta della ragione del miglioramento continuo dei loro album, e cioè la rivalità tra John e Paul. Come disse George Martin: “Se non si fossero mai conosciuti, avrebbero scritto belle canzoni, non canzoni eccezionali”. Quello che faceva di buono uno, costringeva l’altro ad andare a casa a fare di meglio, ed è così che crebbero continuamente: per esempio “Penny Lane” venne scritta da Paul punto nell’orgoglio per “Strawberry Fields”. Inoltre, insieme, i due raggiungevano un equilibrio che nelle loro carriere soliste venne perduto. Come disse uno dei collaboratori del gruppo: “Paul impediva a John di cadere nel pessimismo estremo e nell’incomunicabilità. John impediva a Paul di scadere nel banale”.

George Martin, nel testo, esalta anche la loro ignoranza musicale: “Io non avevo la loro libertà interiore, perché sapevo troppe cose”. Paul, e soprattutto John, con la loro scarsa conoscenza, trovavano cose meravigliose anche nelle cose semplici. Ovviamente, non siamo qui a fare l’elogio dell’ignoranza, ma quante canzoni di 4 accordi sono capolavori. Anche se nel libro non è detto, quando John passò a comporre dalla chitarra al piano, disse: “Alla chitarra non mi stupisco più, perché la conosco troppo. Al piano, di cui so poco, sto tornando a stupirmi per quello che riesco a trovarvi”. Le semplici ma belle cose di Lennon al pianoforte contenute nel “White” (“Cry Baby Cry”, “Sexy Sadie”, “Revolution (Single)”) furono frutto di questa sua ignoranza dello strumento.

Di George Martin si parla anche per il fatto secondo molti era lui che scriveva la loro musica. Lennon, negli anni 70, volle reagire a questa storia, e lo fece con sarcasmo: “Vorrei tanto ascoltare la musica di George Martin. Vi prego, fatemele sentire”. Basta riflettere un secondo, per capire quanto è ridicola questa leggenda, perché il produttore, senza i Beatles, non scrisse mai un’altra “Strawberry Fields” o un’altra “Tomorrow Never Knows”. Ecco le sue (definitive) parole: “Senza le mie partiture, molte canzoni non sarebbero state le stesse, ma il genio era tutto loro. Su questo non ci piove”. E anche Lennon lo ringraziò per il suo contributo: “George ha canalizzato tutte le nostre idee nella giusta direzione”. Inoltre, Martin fu in parte responsabile del miglioramento delle loro canzoni, perché li spinse a costruire architetture sempre più complesse e a “pensare sinfonicamente”.

L’autore non è un esperto di musica, e quindi si sofferma di più a celebrare “Pepper” che “Revolver” (definito comunque l’apice “tecnico” della loro carriera). Ma essere inesperto ha dei vantaggi, perché spesso il buon senso di un principiante analizza le canzoni meglio di un musicologo ottuso, che si concentra sugli aspetti tecnici di un pezzo, e si dimentica di analizzare l’emozione che una canzone riesce a dare. Heertsgaard non mette mai il buon senso e l’emozione in secondo piano.

Eccellente l’analisi del testo di “Strawberry Fields”, che l’autore ha compreso nel suo reale significato.

Letteralmente stupendo il racconto del loro momento più terribile: il making di “Let It Be”.

E poi il gioiello: l’analisi dello scioglimento. L’autore arriva dritto al punto, utilizzando le interviste fatte dai 4 negli anni 70. Le pressioni create dalla venerazione che seguì la pubblicazione di “Pepper” ebbero un ruolo centrale. Nello scioglimento c’era la loro voglia di tornare ad essere anonimi, per poter tornare a fare musica serenamente, senza più lo spettro delle terribili aspettative che pubblico e critica avevano verso di loro. Come disse Harrison: “Dovevamo mettere fine a quella follia dei Beatles, per ritrovare lo spazio di respirare e riacquistare una dimensione più umana”. Per tre di loro fu come bruciare la fabbrica e uscire dalla gabbia dorata: una liberazione.

C’è ancora gente che pensa che sia stato Paul a sciogliere i Beatles. La storia è molto diversa e molto più complicata. Scoprirete, e sono sicuro con grande sorpresa, che fu Lennon che un giorno disse agli altri tre: “Me ne vado”. Tuttavia, John (furbescamente e ipocritamente) non lo disse mai in pubblico, lasciando una porta aperta a future collaborazioni: “Ho pubblicato vari album solisti nel 69/70, ma che sia fottuto se ho mai detto di aver lasciato il gruppo”. Peccato che l’innocente John tenne per se la bella “Instant Karma!” e la splendida “Jelous Guy” e lasciò per i Beatles le canzonette del Medley di “Abbey Road”.

Anche se nel libro non è detto a chiare lettere, McCartney capì subito che i Beatles sarebbero stati solo un ripiego per Lennon e allora (giustamente e coraggiosamente) decise di dare un taglio a questa ipocrisia, e chiudere al top una bella avventura, che sicuramente sarebbe degenerata in “reunion commerciali” di tanto in tanto, con la pubblicazione di canzoni secondarie che avrebbero fatto parte di album scadenti che però avrebbero comunque venduto, perché erano dei Beatles – tenendo le canzoni migliori negli album solisti. Per Paul bisognava dare tutto (e il meglio) per il gruppo, e non solo una parte di se stessi. Grazie a lui, i Beatles non hanno un declino patetico nella loro storia. La loro fine (1968 – 1970) stata certamente miserabile e triste (con tre capolavori mancati), ma non patetica.

Nel libro, c’è anche spazio per parlare della grandezza della loro opera. Conoscerete il parere di George Martin: “C’è chi li ha paragonati a Shubert, e questo è proprio eccessivo. Per me hanno saputo entrare come pochi nel cuore della gente”.

Proprio così: i 4, senza essere compositori eccezionali, hanno saputo scrivere canzoni oggettivamente meravigliose, capaci, come poche, di toccare le corde dell’emozione.

Non tra i massimi compositori, ma tra i massimi “songwriters” di sempre.

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