Il musicista più famoso fra quelli nativi dell’Isola di Wight (Inghilterra, in pieno canale della Manica) è attualmente un imbolsito signore che conduce un pub di proprietà dalle sue parti, insieme alla seconda moglie Ria (la prima si chiamava invece Pia, che buffo…). Ogni tanto, insieme allo storico partner di carriera ovvero il tastierista Mike Lindup, s’imbarca in qualche tournée britannica o europea risfoderando il marchio e la musica dei suoi Level 42. Le sue manone d’oro smettono allora di maneggiare insospettatamente boccali di birra ed estratti conto, per sublimarsi a livelli portentosi a contatto con la tastiera in grafite e le quattro corde del basso Status, strumento col quale ha fatto vedere mirabilie scrivendo senz’altro un’indelebile pagina nel manuale del funky pop mondiale.
Nel 1984 invece il giovanotto King doveva ancora sfondare coi Level: la fama e il successo commerciale del gruppo erano in ascesa, ma solo tre anni dopo avrebbero raggiunto l’apice col notevole e discretamente ruffiano “Running In The Family”. La casa discografica gli consentì miracolosamente di pubblicare questo disco solista ben pregno di libero arbitrio artistico, nonché di desiderio di suonare prima per se stesso che per qualsiasi altra, meno nobile, ragione. Il lavoro è in effetti poco commerciale, assai meno della contemporanea musica dei Level 42 ancorché tutt’altro che annacquata al tempo, come invece avverrà in seguito. Non era musica per i ragazzini di allora questa, piuttosto per adulti alla ricerca dell’eccellenza strumentale e comunque di accessibilità melodica sposata a consistenza musicale.
Memore dei suoi trascorsi batteristici di gioventù, il virtuoso King siede nell’occasione anche dietro tamburi e piatti, fornendo una performance in assoluto più che decente, ma a ben vedere sorprendente se si tiene presente che la batteria non è il suo strumento consueto. Su di essa il nostro non ha sicuramente problemi di timing anzi… è pure troppo quadrato. Dato che c’è, in questo suo album solista il dotatissimo musicista maneggia pure quel poco di chitarra elettrica che gli serve (assoli compresi) e allunga le mani anche sulle tastiere, in questo campo facendosi però aiutare dal compare Lindup e da altri per le parti più virtuose. Insomma gli unici strumenti dai quali resta alla larga, arruolando specialisti, sono fiati ed archi.
I quaranta minuti del disco sono tutti interessanti, tra episodi cantati con la sua educata e distesa voce baritonale, fra i quali pure la cover dei Cream “I Feel Free” riproposta in verità senza particolare valore aggiunto, oppure strumentali. Mark bada di mantenersi nell’ambito della canzone strutturata, senza lasciarsi andare più di tanto a jam sessions ovvero ad episodi meramente ginnici sulla tastiera. Però verso la fine della super suite iniziale “The Essential”, pezzo forte del disco, ci dà dentro eccome con le sue proverbiali e terrificanti slappate a velocità irreale, dopo essersi in precedenza sbizzarrito a lungo sul suo strumento principe con tutta una serie di armonici, stravolgimenti timbrici di pedale wha wha e guizzanti melodie sulle note alte.
Restando su questo esteso (oltre i diciotto minuti) e laborioso suo capolavoro, esso ne ha dentro di cose… ci sono cori chiesastici, campane tubulari, passaggi di violoncello e di flauto, sezioni di ottoni, assoli di chitarra elettrica, accelerazioni forsennate e aperture d’atmosfera: è decisamente una pagina progressiva, anche se timbri e punch della ritmica pescano logicamente dalla prediletta tavolozza jazz rock fusion.
Ultima annotazione per la copertina: a mio parere non è un caso l’atteggiamento scelto per la foto del musicista, con quel pollicione ben in evidenza a premere sul suo faccione, con tanto di callosità al polpastrello… in primissimo piano vi è proprio l’arto responsabile per grande parte del suo peculiare e sensazionale stile al basso, così pompante e percussivo. Non per niente le mani di Mark King sono tuttora assicurate presso i Lloyd’s per una cifra a sei zeri!
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