Parlare dell'importanza del numero tre nella storia di Mark Knopfler, oltre a tirar in ballo la pluridecorata carriera in uno dei gruppi più stimati e rispettati del pianeta musica, non può far prescindere da quel percorso musicale parallelo alla grande autostrada del business, fatto di strade più piccole ove si rincorrono e fondono  soundtracks (da "Local Hero a "Shot For Glory"), gruppi estemporanei (Notting Hillbillies) e collaborazioni brillanti (Mark & Chet). Se con i Dire Straits (fatta eccezione per i primi straboccanti anni di carriera) le pubblicazioni sono andate con il tempo diradandosi, la carriera solista del nostro, almeno riguardo al calendario delle pubblicazioni, sembra aver imboccato un cammino all'insegna della regolarità nel rispetto di quella intemerata vita artistica che lo ha sempre contraddistinto.

Oggi più che mai per comprendere questo artista, serve un vero e proprio telescopio, capace di scandagliare anche in quei dettagli della sua carriera che a prima vista possono apparire come ininfluenti, che invero distillano le poche certezze dall'apparente oggettività. Che Mark Knopfler avesse potuto crearsi una forte identità solista, non era affatto cosa scontata. I notevoli riscontri commerciali del precedente "Sailing To Philadelphia" hanno rivelato in maniera incisiva, quanto fosse fondamentale tesaurizzare l'aggressività dei suoni di "Money For Nothing o "Heavy Fuel" in favore di sonorità più teneramente folk e country.

Con "The Ragpicker's Dream" l'eclettico chitarrista realizza quello che in successione temporale può essere considerato come il suo disco più semplice e moderatamente elettrico dato alle stampe. Se "What It Is" con un diretto Straits-sound rappresentava una facile porta di accesso a SLT, per quest'ultima prova, il non facile compito di apripista viene lasciato alla squisitezza folk di "Why Aye Man" (vale a dire: well, of course), che dal vivo diviene trascinante come pochi. A "Devil Baby" spetta presentare un brano dalla perfetta combinazione elettro/acustica in cui pedal steel, bouzouki e violino aiutano a mettere in note un testo impegnativo sullo sfruttamento televisivo delle bislaccherie umane dei reality ("See the pig-faced man and the monkey girl - Come see the big fat lady - ‘Gator slim with the alligator skin - Come see the devil baby). Con "Hill Farmer's Blues" introdotta da un'elegante accarezzamento allo strumento che richiama dalla memoria la immortale "Brothers In Arms", è l'inebriante narrazione knopfleriana a trascinare l'ascoltatore in quel limbo di piacere uditivo, dove strofa e ritornello  si amalgamano alla perfezione con suggestiva semplicità.La sobria "A Place Where We Used To Live" ci guida con la sua pacata ritmicità in un atmosfera affievolita, dove la duttilità delle note di un sommesso pianoforte possono indurre all'analisi di un testo dai toni autobiografici (Now in another town - You lead another life - And now upstairs and down  - you're someoneelse's wife - Here in the dust - There's hot trace of us - Everything is gone - But my heart is hanging on).

C'è forse volontà di tagliare con il passato? No, Knopfler non ha volontà di recidere con i suoi trascorsi, questo è un disco risolutamente knopfleriano dove vengono focalizzati i vecchi amori. E' proprio così, sia  con la (più) lunga "Fare Thee Well Northumberland" che combina vibrazioni della tradizione americana a risonanze popolari inglesi  decorate da una melodia di altri tempi, sia ascoltando la tenera titletrack,  in cui poesia e musica trasmettono un benessere interiore a chi riesce a godere della genuinità di un formato canzone essenziale. Per un maggior apprezzamento servirà qualche ascolto in più per la profonda "You Don't Know You're Born" e le invocazioni di "Marbletown" , mentre il bluegrass di "Daddy's Gone To Knoxville" (nata pensando alle storie di Chet Atkins di quando girava in lungo e in largo il paese) ci conduce per mano a "Old Pigweed" la cui amabile delicatezza ne fa un perfetto gioiellino conclusivo.

A Mark Knopfler non sono mai piaciute le mezze misure, né quando era fortemente "alle strette" (... si fa per dire), né tantomeno da quando sulle copertine dei dischi ha cominciato ad apparire semplicemente il suo nome. Questo è un disco dove la strada intrapresa dall'artista non presenta corsie parallele è semplicemente a senso unico, un senso unico fatto di musica attendibile integra e autentica, i cui bulbi trovano nelle tradizionali lande americane e inglesi, la giusta linfa per rivitalizzarsi e riprendere forma. Oggigiorno siamo più snob questa musica la chiamiamo "roots music", nei sixties si pronunciava semplicemente folk, ma forse per dare il giusto riconoscimento a questo lavoro basterebbe semplicemente affidarsi a una commovente dichiarazione dell'artista:

"Mi immagino il paradiso come un luogo ove la musica folk incontra la musica blues".

[Per chi ha fatto del feticismo knopfleriano una missione della propria esistenza, sappia che esiste una "limited version" dell'album che include un secondo cd live, con versioni imperdibili dei brani di seguito elencati: "Why Aye Man", "Quality Shoe", "Sailing To Philadelphia" e "Brothers In Arms", più il video live di "Why Aye Man" ripreso allo Shepherds Bush Empire nel 2002.]

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