Negli ultimi sei mesi ho provato tre momenti di gioia vera. Il primo, quando ho letto che il 2 agosto sarebbe uscito "Last Words", l‘album dimenticato degli Screaming Trees, che ho tentato invano di recensire combattendo contro il mio entusiasmo. Il secondo, quando ho ascoltato “Burning Jacob’s Ladder” (pur non immaginando minimamente la ragione che ha spinto Mark Lanegan a scrivere un pezzo per un videogioco, per di più uno sparatutto).? Il terzo, appena prima di Natale, quando ho ascoltato “The Gravedigger’s Song”: un brivido orgasmico difficile da dimenticare, per il quale una buona parte di merito ce l’ha la batteria, il resto la voce di Lanegan che sussurra in francese. Un delirio acido, da far vibrare le carni, che ha risvegliato in me pensieri tutt’altro che decenti e fantasie quanto meno discutibili sui becchini.
Intendiamoci: io provo una venerazione tale per quest’uomo che l’avrei amato alla follia anche se mi avesse letto l’elenco del telefono, o il consuntivo di una bolletta dell’Acea. Quindi sono (o meglio, ero) estremamente di parte. Ma, purtroppo, le aspettative sono una delle peggiori maledizioni esistenti. Mettetevi nei miei panni: ho aspettato "Blues Funeral" con la stessa trepidazione con cui si aspetta un amante. Frenesia, tachicardia, tremori, c’era tutto. Ed è svanito tutto alla terza traccia. Capita, più di una volta nella vita, di dovere scegliere da che parte stare. Che potesse capitarmi con Mark Lanegan non l’avrei mai detto.
Preliminari. Copertina: Power, Corruption & Lies. Seriamente, che sta succedendo quest’anno? E’ almeno il terzo disco che vedo così. Ma lui è Lanegan tutto può, non stare qui a fare la bacchettona, è solo una forma di feticismo inutile, passa alla musica. Sguardo veloce alla tracklist e, dopo l’ennesimo devastante incontro col becchino dei miei sogni, lo stillicidio: “Bleeding Muddy Waters” è un’invocazione ai fantasmi del bayou, un blues perfetto, forse un po’ troppo “pulito” rispetto all’idea che le paludi del Mississippi possono evocare; una nenia meravigliosa, da contemplazione del delta del fiume alla luce della luna che appena s’intravede dietro le nubi nere. E’ Mark Lanegan, punto. «You’re the bullet, you are the gun/ You are the master, I’ve been the slave». Corro il rischio di essere troppo felice, troppo presto, e alle mie fantasie malsane si aggiunge anche un bel tocco fangoso di swamp. Sono pronta. Ero pronta. Si apre “Gray Goes Black”, e dopo un paio di minuti abbondanti mi scopro a canticchiarci sopra un verso di Jacob’s Ladder. Resto interdetta per qualche secondo, torno indietro, faccio più attenzione: è proprio lei, ma cos’è successo? E’ uno scherzo, spero che lo sia. Che fine ha fatto il pezzo? Questo non è Jacob Singer che rifugge le allucinazioni causate dalla sua esposizione alla scala: questa è una sottospecie di canzone dei Corrs, dannazione. Crollo di libidine, immediato e mostruoso. Che senso ha prendere lo stesso, identico pezzo e annacquarlo prima di inserirlo nell’album? Perché “Gray Goes Black” è esattamente questo: è la sorella sfigata di Jacob’s Ladder.? Qualche speranza in più me l’aveva data “St. Louis Elegy” che, effettivamente, è il degno continuum di Jacob’s Ladder. E’ solo una mia sensazione. E’ sempre lui, a cavallo tra "Field Songs" e "Bubblegum": ritorna la sacralità lanegiana, e piange in silenzio trangugiando ettolitri di alcol fino a star male. Questo è il Lanegan che ti piace, “Riot in my House” riporta il desiderio ad un livello accettabile, anche se si potrebbe fare di meglio. Sono pronta, di nuovo, sono sua. Poi parte “Ode to Sad Disco” e capisco che non c’è speranza. Sono passata dalla semi-perfezione a un cazzo di disco di Moby.
Domande che si moltiplicano all’infinito, un album che si chiama "Blues Funeral", santo cielo, e sembra raccattato da un banchetto di un mercatino indie. Mi sforzo di pensare che, volendo essere un’ode alla disco(teca) triste, avere un certo suono sia una cosa inevitabile. La ascolto ancora, e non riesco a descriverla diversamente: atroce. Terribile. Pessima. Stessa sorte per “Quiver Syndrome” e “Harborview Hospital”: ero immersa fino alle ginocchia nel fango, e mi ritrovo pulita e vestita alla moda sulla spiaggia di Brighton. Potrei dirvi che la situazione ha rischiato pallidamente di riprendersi con un altro paio di pezzi salvifici (“Leviathan” e “Deep Black Vanishing Train”), se solo l’inspiegabile capata per Moby non tornasse prepotentemente a farsi viva in “Tiny Grain of Truth”. Ora, se volete un giudizio da rivista patinata, vi dico che questo è un disco molto radiofonico, facilmente sopra la media della gran parte della roba in circolazione. Se volete un giudizio sincero, sappiate che rischio di passare “dall’altra parte”. Perché che il periodo dei camicioni di flanella e dei fratelli Conner indemoniati alle sue spalle fosse finito, è un dato di fatto. Ma che dalla mente -e dal cuore- di Mark Lanegan potesse uscire una cosa del genere, non me l’aspettavo proprio.
Preferisco fermarmi a Bubblegum.
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