Nel 1990 il sole sopra le nubi di Seattle era indubbiamente allo zenith. La scena brulicava di proposte, magnifici lazzi di feedback avvolgevano il Puget Sound, l'impero Sub Pop non era ancora stato depredato e il senso di una comunità incontaminata era ancora riscontrabile.
Nel periodo di massimo fulgore del grunge, il frontman dei lisergici hardrockers Screaming Trees per primo spezzò il nodo gordiano della tensione elettrica, evocando inusitati e ammalianti orizzonti. Mark Lanegan sorprese tutti, pubblicando "The winding sheet": un album cantautoriale, evocante magistrali chiaroscuri acustici, tetre atmosfere coheniane e raffinate suggestioni buckleyane. E la storia gli ha dato ragione, dato che è tra questi solchi che vanno cercate le basi (nonché l'apice) di una carriera solista avvincente che perdura ai giorni nostri. Senza contare l'influenza di quest'album sui contemporanei, ai quali dimostrò che incubi e angosce potevano essere incanalati nel lirismo di un sound non muscolare e ruggente, ma altrettanto valido artisticamente.
Affiancato da musicisti dell'area Sub Pop (da Jack Endino a Kurt Cobain e Chris Novoselic) e dal grandissimo e sottovalutato futuro Dinosaur Jr Mike Johnson, il cantante di Ellensburg mise in primo piano quella voce: intrisa di alcol e malinconia, capace di passare da cavernosi toni a impressionanti slanci e di regalare una visione oscura dell'America, tra bibliche folgorazioni alla Johnny Cash e l'urlo primitivo blues di un Howlin' Wolf.
Abbondano i momenti da inserire in bacheca in "The winding sheet": l'iniziale "Mockingbirds" alterna stranianti fantasmi barrettiani a squisiti fraseggi di piano e versi desolati come "You can't kill what's already dead". Altrove ci si snoda sui binari di un country-folk ombroso e macabro, come nelle strepitose "Museum", "Undertow" e "Eyes of a child", che arriva a lambire delicati lidi psichedelici, o si inscena un bizzarro cabaret waitsiano come in "Juarez".
Non mancano ovviamente echi del totem della grunge generation: Neil Young. Il sinistro registro da western ballad di "Ugly Sunday" sembra evocare alcune delle pagine più oscure del Canadese, come "Running dry", mentre certe atmosfere di "American stars ‘n bars" sembrano rivivere quando l'apparente pacatezza di una fulgida gemma quale "Wild Flowers" si sublima in uno struggente falsetto e in un testo di toccante poesia. Ma Lanegan era già in grado di non vivere di sola luce riflessa: si pensi al maestoso e narcolettico incedere della title-track, davvero alieno.
Infine, i due brani che videro la partecipazione del leader dei Nirvana sono quelli più coevi al tipico sound di Seattle. "Down in the dark" avrebbe fatto un figurone nel capolavoro "Buzz factory" degli Alberi urlanti, per quel pastiche di chitarre acide e ossessività alla Black Flag, e con la voce di Kurt che affianca Lanegan nel catartico refrain. Il celebre blues autografo di Leadbelly "Where did you sleep last night?" è poi reso in versione sfavillante: Lanegan si arrampica su vette imperiali mentre Cobain disegna un gelido fluido chitarristico. Una versione tanto magnetica che quella proposta dall'Unplugged dei Nirvana avrebbe eguagliato, ma non superato.
"We could wander, We could stray/ But the shame remains" ("Eyes of a child").
I demoni della generazione grunge si trovano avvinghiati nelle radici: dietro l'angolo, ci sono solo la dannazione per i suoi anti-eroi e la dissoluzione per la loro epoca..
Carico i commenti... con calma