Mark Lanegan ha la voce scucita e le parole gli cascano dalla gola.
Finiscono raccolte in una bacinella di acidi suoni folk, che affondano le radici molto più in giù di quanto avevano fatto le precedenti distorsioni degli alberi urlanti.
Anno domini 1993: l'impero alternativo inizia la propria parabola discendente, Lanegan è uno dei primi a pianificare una fuga dalla città dei fantasmi. Per viaggiare leggero e sentirsi libero si porta dietro una strumentazione ridotta all'osso: chitarra, basso acustico, batteria. Eventuali altri inserti strumentali li raccoglierà per strada. Nella mano destra, una bottiglia di whiskey, presumibilmente imbevuta dello lo spirito di Tom Waits, quello vero.
"Whiskey For The Holy Ghosts" è il secondo lavoro solista di Lanegan ed è un disco blues, puro perchè sporco, gonfio di ubriachezza e lordo di cenere. Seppur scritto in un periodo balordo per l'autore, quando il nostro è uno dei tanto fantasmi riflessi in un bicchiere mezzo vuoto, è tuttavia un disco quieto e, sia pure segnato da una forte tensione emotiva, straordinariamente lucido. Poche distrazioni e pochissime distorsioni: qui è' la tradizione americana a farla da padrone tra western elettrificato (Pendulum), inserti di violino e contrabbasso (Carnival), echi di carillon (The River Rise), tappeti organo (Kingdoms of rain), sentenziosi rulli di tamburo (Beggar's Blues). La voce, rauca e sublime, è in primo piano, sempre su tutto, a decantare liriche che, rispetto all'esordio di tre anni prima, risultano di più ampio respiro sebbene poeticamente scarne e dirette.
Probabilmente il picco più alto della sua produzione, "Whiskey For The Holy Ghost" è forse il vero esordio del Lanegan d'autore, enfatico cantastorie noir, dalla classe assolutamente indiscutibile.
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