Esprimere veemenza e ferocia in musica non è molto difficile. Lo è tanto quanto fare "rumore". Il problema nasce quando si vuole esprimere questa rabbia attraverso un programma, una tecnica, un'idea "musicale" già di per sè rivoluzionaria. Ciò non vuol dire "addomesticare" la forza, ma fare in modo che la forza sia il fine, e non il mezzo. Il mezzo usato da Mark Stewart e i Maffia fu altrettanto devastante.

Il mitico leader del Pop Group, intreprese la carriera solista debuttando prima con un EP, e poi incidendo questo straordinario lavoro. Coadiuvato per l'occasione dai Maffia, che non sono altro che i Tackhead sotto diverso nome, Stewart pervenne ad una forma di linguaggio universale che ha pochi precedenti nella storia del rock. Questo disco fu registrato tra il 1982 e l'84, ma si può affermare tranquillamente che non ha tempo. Il suo merito maggiore è proprio questo: l'universalità. Non solo per la grande carica eversiva che conteneva a livello di testi e di denuncia verso il sistema capitalistico occidentale, ma anche per il suo suono, straordinariamente "vitale", per la miscela esplosiva di elementi tra loro diversi, uniti tutti dallo spirito "primitivista" di Stewart.
L'umore di fondo infatti non è molto dissimile da quello di Y del Pop Group. A cambiare sono appunto i mezzi, influenzati dalla presenza dei Maffia, e da un modernismo ancor più accentuato. A livello di "avanguardia" infatti, questo disco si spinge ancora più oltre di Y. Qui sono presenti dub, eletronica, trip-hop, reggae, break-beat, scratching, jazz, soul, gospel, deformati sotto una lente "selvaggia", sfregiati da una pulsione animalesca, da un desiderio rivoluzionario utopico.

Lo studio di registrazione viene usato come un'officina meccanica, smontando e rimontando ogni brano in tutta la sua durata, attraverso manipolazioni sonore di ogni tipo. Questo rende lo svolgimento dello stesso totalmente imprevedibile, con sovrapposizioni di più strati sonori, stacchi repentini, sample improvvisi, cambiamenti di ritmo insospettabili. La melodia è quasi del tutto assente, a favore di una dissonanza strutturale.
Ascoltando un pezzo come "High Ideals And Crazy Dream", non si può non essere pervasi da un senso di disorientamento, di perdita di lucidità. Una lente invisibile infatti rallenta, deforma, destruttura il tutto, "sporca" il suono (avete presenta l'ascolto di una cassetta smagnetizzata? Beh è uguale), mina il dub pesantissimo di eventi sonori disturbanti: sirene, trombe jazz, elettronica aliena. Su tutto la voce di Stewart, un animale ferito che grida la sua disperazione in una giungla dall'eco terrificante.
"Blessed Are Those Who Struggle" fa molto peggio: solo nel primo minuto sono racchiusi anni di avanguardia, con un ritmo techno di fondo, scarnificato da una successione di suoni impressionante. Si va avanti così per oltre 4 minuti, dimenticandosi della parola "canzone", se non per i 4 minuti.
Si resta sbalorditi nel sentire il battito disco-house di "None Dare Call It Conspiracy", attraversato da voci metalliche di matrice industrial, e da linee laser sintetiche. Non si riesce mai a capire che cosa stia esattamente succedendo, e questo rende un effetto simile all'ipnosi.
Il richiamo della tromba nella successiva "Don't You Ever Lay Down Your Arms" serve proprio a questo, ad ipnotizzare col suo rintocco sfocato, ora più vicino, ora più lontano. I piani sonori del disco non sono solo alterati "longitudinalmente", durante cioè lo scorrimento del pezzo, ma anche in profondità, con un sapiente lavoro sul volume in fase di missaggio.
A dir la verità, qualche brano appena appena più "normale" esiste, ma non pensate che il reggae di "The Paranoia Of Power" sia poi così "lineare". I controcanti celestiali femminili, le percussioni afro-tribali, e i soliti rumori danno lo stesso effetto stordente. L' unica cosa che cambia è l'andamento abbastanza continuo del ritmo.
Ad essere torturata in "To Have The Vision" è la voce di Stewart, resa liquida e informe da una maligna elettronica, che si diverte pure ad infestare un ritmo che è sempre reggae, ma è come un reggae suonato dagli Orbital.
"Jerusalem" è una fanfara per rumori di folla ed orchestre funeree, angosciante e onirica. Un'altra boccata d'ossigeno la dà la title-track, col suo passo marmoreo di dub, su fraseggi di tastiere in lontananza e voce filtrata. Tutto sommato però, il pericolo è scampato.
Stewart pone come congedo un altro sanguinario omicidio sulla forma canzone: "The Wrong Name And The Wrong Number", 5 minuti su base industrial ben celata, frastuoni cacofonici, declamazioni rap e scosse telluriche.

Bene, se non avete ancora capito di che si tratta, vi dico solo che questo disco è un pugno nello stomaco, uno schiaffo alle convenzioni, un raro esempio di vera avanguardia, un devastante atto di rivoluzione musicale. Ma se volete sarò ancora più breve: questo disco è leggendario.

Carico i commenti...  con calma