Uscito due anni dopo l’esordio "Catartica", disco costruito sui fraseggi chitarristici del frontman Godano e di Riccardo Tesio, i Marlene Kuntz propongono un lavoro più omogeneo rispetto a quello che in fondo era stato il best of delle canzoni scritte in gioventù, come spesso accade negli album d’esordio. "Il vile" è un album coriaceo, duro a penetrare e comprendere, intriso di dolore fisico e di un apparentemente inguaribile disagio esistenziale, e l’asprezza che pervade le menti del gruppo (e in particolare quella di Cristiano Godano), già presente in "Catartica", qui si cristallizza nell’impossibilità di cambiare il mondo che ci circonda. Il tutto ottenuto anche qui, con le chitarre e la voce di Godano, più tagliente e compiuta del disco passato; la tensione qualitativa dei brani non si concede il minimo errore (come in due episodi era invece accaduto in "Catartica").
"3 di 3", l’apertura del disco, è grezza e spietatamente ironica, al primo ascolto quasi “fastidiosa”; in "Retrattile" Godano dà il meglio di se nel testo, parabola psicologica con al centro la società e il ruolo distruttivo che essa effettua sulla personalità e dignità delle persone (“Parassitare per la nuova dignità è un surrogato delle andate vanità. Così disponi e sei esplicito col beige che non ti dona ma ti spara via dai guai”) che termina con un rassegnato “probabilmente io meritavo di più”. "L’agguato" è il primo capolavoro del disco; parte malinconico per incanalarsi in un crescendo emotivo che ricorda nella struttura il post-core degli Slint e nel suono i Sonic Youth (per chi non lo sapesse, gruppo-principale ispirazione dei Marlene Kuntz ai quali sono stati paragonati fino alla noia) che culmina nelle urla di terrore/dolore del malcapitato. E’ la storia di un incidente stradale avvenuto in un “esiziale, secco e disumano scarto di secondo che vale tanto” metafora dell’orrore che abita nella quotidianità, pronto a scagliare il proprio furore in qualsiasi momento. Cantato e compattezza sonora del gruppo qui raggiungono una perfezione solo abbozzata nelle precedenti canzoni. "Cenere", sporca e coinvolgente, è una storia di sesso carnale di cui i protagonisti (non si capisce con che ruolo) sono il Mozzo, che puzza come la sua sbobba, un bambino e inquietanti presenze femminili all’interno di una discoteca fumosa e rumorosa. Le chitarre sono perfette e glaciali, e il basso di Dan Solo è tirato fino all’osso. "Come stavamo ieri" è una canzone nostalgica e abbastanza pulita e accessibile, nonostante sia complessa sia come testo che come musica (“Quanto fa male devastare gli argini del nostro scorrere”). "Overflash", tiratissima e pervasa di un’energia particolare distribuita dalle chitarre taglienti di Godano e Tesio, è, usando le parole testuali di Godano, “il delirio di uno dei due personaggi che sta per morire di overdose… l’ altro teoricamente dovrebbe stare molto bene nei suoi flash… c’ è quindi una situazione molto caotica, molto complessa, imbarazzante”.
Se, come alcuni fanno, si può considerare "Il Vile" come parabola dell’implosione della sofferenza, "Ape regina" è senz’altro il vertice della parabola e capolavoro del disco. Costruita su una chitarra minimale e un basso anche qui spinto al massimo, è una canzone intensissima e di difficile interpretazione; protagonista, assieme a tre figure ignote, è un amore vissuto da una lontananza non vincolata dallo distanza ma stigmatizzata dalla morte dell’amata; è, per usare le parole del gruppo nel sito ufficiale, una storia di incertezza, dubbi, esitazioni, incomprensioni, irritazioni, infezioni, assenza, presenze, tormenti, urla e furia (“E in queste stanze si urla e un tonfo scuce la pelle, glaciale un brivido sale dal basso, scompaio: non ci son più. Non ci sei più. Non ci son più. Non ci sei più. Non ci sei più”) (“Nasconderò con miele colante il vuoto che avanza”). L’ironica "L’esangue Deborah" e l’intima e splendida "Ti giro intorno" (“Voglio la via più facile per avere quiete complice. Voglio te dentro me per farcela”), le canzoni più melodiche del disco, aprono la strada per il finale del disco, costituita da "E non cessa di girare la mia testa in mezzo al mare", a suo modo ironica nel ricoprire candidamente una struttura pop semplice dei baccanali punk, e "Il vile", con quel giro di chitarra glaciale come il gesso spuntato sulla lavagna eppure originalmente incisivo, canzone che affronta – in maniera obliqua e tagliente – il tema della profondità/leggerezza della vita, per finire con una speranza subito affogata nella consapevolezza della propria natura (“Vorrei colpire al cuore e conquistare il tuo stupore. Ma è così dura, credi, e sento che non lo so fare”).
Carico i commenti... con calma