Laddove nei Party Boys (dove Marnie suonava il basso) erano presenti cinicità che scarnificavano l'ascoltatore attraverso un voodoo tribale di colta retroattività animale, solisticamente Marnie Weber continua la ricerca e scoperchiatura di aggressività cortocircuitata spostando la bolla underground su galleggiamenti e sospensioni di sinuosità orrorifiche che la "primitività" del precedente combo scorticava apertamente.
Si vira qui su un cannibalismo interiore che spolpa ad un livello psichico differente, più impersonale, come se fosse un invito inesistente ad una disintegrazione cosciente. I tappeti sonori basculano cangianti, attraenti, ma tremendamente inquietanti nella loro mancanza di appigli a una comfort zone che di solito tutti identificano nella giustificazione delle carezze delle menzogne che ci raccontiamo.
La Weber mette da parte i filtri di accomodamento della realtà e senza fronzoli ci invita ad un viaggio diretto nella visualizzazione di lande aliene dove le creature che ci abitano sono come le sue bizzarre installazioni artistiche, inaspettate nella loro intonsa improbabilità.
Le cantilene sirenizzate sintetizzano sprazzi di stregoneria evoluta, dinamicizzata da un mantello nero dove la cappa alchemica fa tabula rasa sulla speranza d'aspettativa monetaria di "tempi migliori" e mistifica l'inganno buonista con un'assenza gratificante che sfancula la conta del tempo.
L'aleggiare di una maga Circe apolide nel congelare l'obiettivo dell'incantesimo rifugge dubbi sulla genuina androginia dei suoni, dove le pietrificazioni non sono sul conto di passati Gorgoni in quanto la Giustizia delle nenie le frusta tutte sul nostro groppone. Proprio l'aspra schiettezza del profondo scherzo uditivo proposto ci rassicura nel dover presenziare i nostri "incubi" dove un invisibile fuori programma allena a considerare sempre meno le paure che ci scoordinano l'anima.
Le atmosfere, gli stridii, i carillon, le giostre crepuscolari, acchittate "al di sopra del rock", non scadono mai in maniera, non si riconosco in astuti cliché alternativi, non ammiccano.
Si potrebbe fraintendere il cogliere una decadenza compiacente ma che a me risulta tuttalpiù eternizzata, escludendo persino l'associazione ad una sofferenza intima dove la Weber inquadra bene il capriccio omnisciente fatto Verbo che svogliatamente palesa "divinità".
Monella Marnie col suo cappellino rabdomante (dalla copertina dell'edizione greca) ad incoronarsi un Alice subway made in Los Angeles CA, dove una vanità impersonale condisce l'ipnotizzazione lucida che ci coinvolge conturbantemente nella scelta della strada più consona a noi, che i crocicchi delle composizioni tentano.
Un pezzo del disco si intitola "You Are Welcome On My Island", ve la sentite di fare una visita di cortesia?
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