"Non è colpa tua. Nessuno ti ha chiesto di soffrire, è stata una tua idea"

La storia del cinema è piena di ingiustizie, una di queste è che Al di là della vita sia un film misconosciuto e considerato un lavoro minore di Scorsese. Nulla di più sbagliato.

Non è il suo miglior film (L'età dell'innocenza e Casino sono i due capolavori assoluti, per me), in alcuni momenti va forse fin troppo sopra le righe, ma Al di là della vita è un'opera molto speciale per me. È il film di Scorsese che ho visto più volte e quello che preferisco tra tutti. Quello che mi dà di più e che, probabilmente, tocca corde più personali ed intime.
La prima volta che lo vidi fu quasi un decennio fa. Pochi altri film hanno il potere di riportarmi alle sensazioni che provavo allora.

Se il sottosuolo di Dostoevskij incontra la notte di Céline: Paul Schrader e Martin Scorsese, storia di un sodalizio che ha cambiato la storia del cinema.

Il viaggio al termine della notte di Scorsese e Schrader, lungo oltre vent'anni di collaborazione, si conclude difatti qui, con Al di là della vita. Nella notte dei fantasmi e degli spiriti newyorkesi, delle anime disperse, arrabbiate, che non vogliono più restare all'interno dei rispettivi involucri di carne e sangue.

E come per la chiusura del cerchio tra Abel Ferrara e Nicholas St. John con Fratelli, non si può non riflettere sul concetto di "film definitivo".

"Tendevo a bloccare le chiamate peggiori, le dimenticavo, ma lei non se ne andava. Ora era venuta a testimoniare per tutti quelli che si erano perduti. Questi spiriti erano parte del lavoro, era impossibile superare un palazzo che non contenesse lo spirito di qualcosa: gli occhi di un cadavere, le grida di un parente caro. Tutti i corpi lasciano un segno. Non puoi stare vicino a uno appena morto senza sentirlo. Questo lo potevo sopportare, quello che mi perseguitava ora era più selvaggio: spiriti nati non completi, omicidi, suicidi, overdosi, che mi accusavano di essere stato presente, testimone di un'umiliazione che non avrebbero mai potuto perdonarmi."

Il film viene spesso accostato al primo e più celebre della coppia Scorsese - Schrader, ovvero Taxi Driver. In comune, i due (capo)lavori hanno, appunto, questa odissea notturna, questo viaggio allucinato, visionario e insonne ("Non credete mai a prima vista all'infelicità degli uomini. Chiedetegli se riescono a dormire. Se sì... Va tutto bene. Basta quello." - per citare appunto l'opera prima dell'immenso scrittore francese, che fu medico, non dimentichiamo) al termine della notte newyorkese, in mezzo a degrado e fantasmi nella megalopoli, ed anche i due protagonisti condividono qualcosa di profondo: sono due personalità borderline, due militari (Frank è paramedico, ma comunque "addestrato" a mantenere la lucidità in situazioni estreme e a lasciarsi tutto ai margini) la cui psiche è sul filo, aspetto d'altronde ricorrente nell'autorialità di Schrader.
Tuttavia, nonostante questo, le due personalità restano distanti, quasi agli antipodi.

"Dopo un po', arrivai a capire che il mio ruolo non era tanto salvare vite umane quanto essere testimone. Ero uno straccio per il dolore, bastava che fossi presente."

Il film, nonostante qualche momento, come dicevo, eccessivo, mostra nel suo complesso un equilibrio davvero raro e magico tra drammaticità anche estrema e ironia, intrattenimento, poesia e riflessioni importanti. La questione religiosa, come quasi sempre con Scorsese, resta dirimente, e il silenzio di Dio - che qui si traduce nella fondamentale ininfluenza rispetto ad ogni tipo di miseria e tragedia - assordante, in un mondo colmo di simbolismo ma in cui la soglia tra la vita e la morte è tanto fragile quanto grande è il senso di colpa per non aver fatto di più per salvare qualcuno a ridosso dell'alba.

Frank Pierce, in definitiva, non è un santo né un uomo che alla santità aspira, ma un uomo che vorrebbe fare del bene, e il non riuscirci lo schiaccia sotto il peso della frustrazione e della sua umanità e fragilità. Oltre che del dolore insostenibile di quel che attraversa, sfiora ed a cui assiste, appunto, come testimone. Il gesto finale non sarà che una presa d'atto definitiva che, talvolta, nulla può essere fatto e che la morte è l'unica liberazione da tutto questo dolore all'interno di un mondo folle e spesso senza senso.

"La maggior parte della gente non muore che all'ultimo momento; altri cominciano e si prendono vent'anni d'anticipo e qualche volta anche di più. Sono gli infelici della terra" - ancora, e in ultimo, Céline.
Anche se l'ultimo viaggio di Scorsese e Schrader è comunque meno estremo del primo e non nichilista come quello dell'autore di Morte a Credito. Uno spiraglio di luce illumina l'ultima scena, che è tra le più belle mai girate da Martin.

Il film resta infine una dichiarazione d'amore incondizionata e nonostante tutto per New York. Solo due anni prima dell'11 settembre.

Nota di merito per la strepitosa soundtrack e a Nicolas Cage che, quando si trattiene (cosa che non sempre avviene), riesce ad essere toccante e convincente. Oltre che ai suoi memorabili compagni John Goodman, Ving Rhames e Tom Sizemore. E ovviamente Patricia Arquette, ai tempi moglie di Cage.

Un'opera preziosa, che deve essere riscoperta.

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