"Ho sempre pensato che avrei girato un film su Gesù. Non so cosa venga prima, se il cinema o la religione. Tuttavia ho come l'impressione che in un certo senso le due cose siano inseparibili… "

Martin Scorsese, 1988.

E' la religione, per Scorsese, ad essere fonte e fattore di influenza continua, costante come un fiume in piena ed in grado di scalfire ciò che alle immagini si manifestà con innegabile razionalità. Tal volta mal celata sotto gli occhi di un "Travis Bickle" in lotta con una propria e deviata ascesi metropolitana, ancor prima, sospesa ed elettrica in grevi atmosfere da basso fondo, come in quelle soffuse ed asmatiche di "Mean Streets"(1973), è questa una spiritualità che si rivela come energia in grado di fungere da unico filo conduttore, indole immancabile di ogni film girato dal pluri-premiato e talentuoso regista. In apparenza, sembrerebbe infatti semplicistico citare precedenti lavori come quelli sopra indicati, in parte per le locations di tutt'altra appartenenza rispetto a quelle dei film in analisi (gelide e materialiste a sfondo metropolitano, decisamente contrastanti con l'arcaico panorama della Palestina a.C. ), e senz'altro anche per i contenuti totalmente a se stanti, quanto personali e riconducibili all'inconscio stesso di Scorsese.

Parlare de "L'Ultima Tentazione Di Cristo", è l'espressione (concedetemelo) "ultima" e rivoluzionaria di uno degli eventi più controversi ed emozionali della storia dell'umanità intera, non da meno della storia del cinema stesso. E' proprio la devozione con cui il regista si afferma in ogni minimo dettaglio, come si vedrà, a trionfare su ogni particolare, elemento tale da suscitare riflessione, specie per ciò che né ha dettato il compimento.

Tutto nasce da una lettura: "L'Ultima Tentazione", di Nikos Kazantzakis.

Il romanzo affascina Scorsese a tal punto da stravolgere quelle che erano prima le sue considerazioni sullo story-board e sulla sceneggiatura stessa del film, che inseminato da questa influenza dona ai contenuti una figura neofita di Cristo, mai vista prima nel cinema e nelle rappresentazioni, tale da rasentare l'eresia. Egli è ben consapevole che questa figura romanzata non avrebbe mai potuto corrispondere alla verità, ma ne trovò affascinanti le vesti, ovvero la vita di un uomo frustrato e perennemente costretto a combattere contro la duplice natura che lo costituisce, fatta di conflitti e di vittorie, fatta di dolore e onnipotenza divina. Una psicoanalisi in forma recitativa, in grado di cedere con fare espressionista e drammatico alla dima del figlio di Dio un colore acceso, forte, ma anche cupo e abissale. Le ritmiche con cui la cadenza recitativa sa protrarsi lungo lo scorrere della pellicola, portano a rendere tangibile le terse atmosfere della Palestina, con le sue strade polverose ed i suoi templi, con i suoi aromi e le sue voci. Merito questo che va pienamente riconosciuto a Scorsese nella scelta del luogo in cui l'intero film viene girato, il Marocco, paese ancora in grado di garantire in pegno con la sua incredibile conservazione dell'ambiente e delle costruzioni di altri tempi, quell'incipit supplementare che regala allo sguardo e ai sensi un realismo degno del passato, ulteriormente garantito dall'incredibile scelta dei costumi e del trattamento a loro riservati (si pensi che impiegarono giorni al fine di sporcarli e renderli il più verosimili possibile).

Ma ciò che strabilia la vista è la scelta del cast, attuata con un fare mai sperimentato in precedenza da Scorsese, che degno del più impeccabile perfezionismo, si concede alla scelta feticcia dei volti (ma anche dei corpi) che avrebbero consentito di dare maggiore realismo a questa opera. Il Willem Dafoe che sanguinante, sia nell'animo che nella carne, cammina lungo le vie dei paesi di Israele, lascia all'immaginario dannatamente poco data la sua grandissima capacità di adattamento alla scena e alla sua sudata fisionomia rispetto al clima, particolare questo da non tenere sotto gamba. Con la sua fisicità scarna ma iper-tesa, egli infatti dona al Cristo di Scorsese un fascino impregnato d'umanità e di empatia perennemente corrotto dalla tentazione e dalle paure della vita, infrangendo imponentemente ogni misura preventiva da mantenere nei confronti di colui che è "morto e risorto".

Altra felicitazione è donata dall'immortale Harvey Keitel, amico intimo e compagno di scena del regista, questi apporta al Giuda una pragmatica solidità che saprà rendere chiara la fragilità del Cristo, il quale ne userà la compattezza per colmare i propri vuoti. Keitel sa riuscire nelle sue mimiche come la perfetta immagine della mano violenta e devota del fedele, disposto a servire e seguire il proprio Signore, ruolo questo decisamente difficile data l'inconsueta attitudine che lo caratterizza rispetto alla conosciuta figura del Giuda evangelico. Ma a completare ogni rottura dogmatica, compare suadente Barbara Hershey che sa assumere impostazione e sguardi dalle mistiche sembianze e degne di una Maria Maddalena mai concepita in precedenza. Interpretazione che porta attrito e tentazione rispetto a quella di Dafoe, rendendo il connubio tra i due pregno di spirituale quanto sessuale intesa. Particolari che stanno al regista decisamente a cuore, e che garantiscono di infierire al totale una connotazione veritiera e palpabile, in grado da rendere accostabile la terra Santa, ad una qualsiasi street di New York City. Il giro delle celebrità sale all'apice infine con la prestanza di un David Bowie mai visto prima, in grado di regalare una prestazione colma di solennità e grande talento, cose che fanno capire quanto si debba essere veramente dotati, per abbandonare temporaneamente il music business, e dedicarsi come niente fosse all'interpretazione del Ponzio Pilato più inquietante mai visto nella storia del cinema.

Da segnalare anche Peter Gabriel, che con la propria magistrale interpretazione delle immagini sa rendere alla colonna sonora del film uno stampo maggiormente orientale e suadente, in grado di stupire anche i più scettici, e di far parlare la terra, le polveri ed il vento stesso.

"L'Ultima Tentazione di Cristo" è, e rimane a mio avviso, il film più audace che Scorsese abbia mai intrapreso.

Un film degno della fama di iconoclasta che egli è riuscito a crearsi in tutti questi anni, e che con devozione è riuscito ad accostare a temi a lui inizialmente tabù, elementi che mai come nella crocifissione di Gesù sanno rievocarne l'inconscio così esplicitamente. Un film che taglia dunque con il passato, lasciandosi alle spalle altri tentativi molto importanti come ne "Il Vangelo Secondo Matteo" di Pasolini, da cui il regista stesso cerca di evadere riconoscendo in esso una stesura da rispettare ma dalla quale separarsi dato l'eccessivo ermetismo. Il tentativo per eccellenza di approfondire ed immergere lo sguardo dentro l'anima più interessante che abbia calcato. Un film favoloso, da apprezzare in modo progressivo e che, se addirittura sezionato, riesce ad essere ancor più unico di quanto si possa immaginare, per l'immensa capacità di conferire all'uomo più importante degli ultimi duemila anni, quella connotazione di umanità che con facilità si riscontra per le strade dei nostri stessi paesi e città: ovvero la lenta e logorante lotta contro i propri demoni, al fine di trovare una verità accettabile o meno in quanto tale.

Questo è il Cristo di Scorsese, e scommetto che in molti vi si riconoscerebbero.

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