Un Robert De Niro ringiovanito al computer prende a calci un uomo sul marciapiede. Ha maltrattato sua figlia, ecco quello che si merita. Il viso di Robert è giovane, ma i movimenti sono lenti e legnosi come quelli di un vecchio. La sospensione dell'incredulità si incrina.

Questo è un film di vecchi. Non ci piove. E non c'è cosa peggiore per un vecchio che tentare di fare il giovane. Ma per fortuna, l'ultimo gangster movie di Scorsese non tenta troppo la strada della violenza e dell'azione. Sono passati 46 anni da Mean Streets. Non è il caso di imitarlo. Eppure qualche bella zuffa non manca. Come non mancano le pistolettate a tradimento con gli schizzi di sangue ben evidenti.

È un film che non va visto tanto per quello che è, ma per quello che rappresenta. Un testamento. Se lo guardiamo per quello che è, non c'è poi molto da dire. Perché Scorsese in fondo fa sempre lo stesso film sui gangster, dal 1973 a oggi. Cambiano un po' le gradazioni di violenza e di ironia, il tambureggiare delle scene, la velocità della narrazione, l'incalzare delle musiche e i colori degli abiti. Ma le storie più o meno sono quelle.

E allora per almeno due ore The Irishman va guardato con tenerezza, come un esercizio squisitamente inattuale. Con alcune trovate interessanti che aggiungono giusto qualche nota frizzante. Ma sono piccoli stratagemmi per rinfrescare un discorso altrimenti già noto. Portate pazienza, ci sono dei vecchi che si stanno ritagliando il loro spazio di protagonismo. Più o meno bene. Al Pacino è un'iradiddio, spettacolare. Gli altri squillano meno, ma si difendono. De Niro non faceva certe occhiatacce dai tempi di Casino.

Ciò che invece stupisce è la scarsa autocritica del regista, che indugia in alcune ridondanze di troppo. Ultimamente il buon Martin non ha lesinato coi minutaggi, ma qui siamo davvero all'eccesso. Come quando il nonno inizia a raccontare, devi armarti di pazienza e risentire le cose due o tre volte almeno. Alla fine però quella testardaggine ti commuove.

Un esercizio inattuale, ma non inutile. Bisogna avere pazienza per capirlo. Molta.

La fiducia alla lunga viene ripagata e abbiamo una conclusione che assesta i colpi finali di una carriera che come poche altre ha saputo raccontare l'ebbrezza del crimine e al contempo farne un controcanto amarissimo. Qui siamo oltre. È un gran funerale collettivo, e chi resiste un po' di più lo fa pregando. Un'amarezza che non porta pentimento, ma come una sensazione di vuoto, un alone di mistero che avvolge il senso della vita di questi uomini. Anime imperscrutabili, forse nemmeno poi così malvagie. Semplicemente, hanno imboccato una strada da cui non si torna indietro. Non riescono proprio a essere diversi questi “bravi ragazzi”.

Non c'è una catarsi finale, un disvelamento, una resa dei conti. Tutto si consuma meschinamente, gli omicidi sono infami, a tradimento, e allo stesso modo la vita dopo il crimine si protrae nell'infamia di chi non sa provare pentimento o dolore per le sue vittime.

Scorsese mostra quel “dopo” che non c'è mai nei film di gangster. Mostra la lenta fine di un uomo che è sopravvissuto a tutti, ha ucciso chiunque senza battere ciglio, ma il suo cuore non è nero. Anzi, c'è un senso di ineluttabilità in lui, non si chiede perché l'ha fatto: sa, crede di non aver mai avuto alternativa. O meglio, ce l'aveva, ma ora (nel presente del film) non sarebbe stato lì a raccontarlo. Per questo non può pentirsi del sangue che imbratta le sue mani.

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