Il secondo album, si sa, rappresenta una prova importante per ogni artista, soprattutto se la prima uscita aveva provocato uno sconvolgimento del canone fino ad allora vigente e aveva indicato nuovi orizzonti per un genere giovane e non ancora maturo come la dubstep. Ebbene, Martyn rientra perfettamente in questa condizione. Il produttore olandese, nel 2009, aveva attirato l'attenzione con lo splendido "Great Lenghts", che con quel mix di techno e dub futuristica aveva sorpreso per la sua lungimiranza, essendo nient'altro che un esordio discografico.
Due anni dopo, Martyn passa alla Brainfeeder del piccolo genio Flying Lotus e regala alle stampe "Ghost People", godendo di una distribuzione senza dubbio migliore rispetto al passato. Ciò che colpisce della seconda prova di Martijn Deijkers è il sostanziale cambio di registro: mentre "Great Lenghts" impressionava per la varietà e le atmosfere, "Ghost People" rappresenta quello che Allmusic definisce "an immersive headphone listen". Oltre alla maggiore omogeneità e alla decisa strizzata d'occhio nei confronti della dancefloor, è il profondo lavoro sul suono e la sua predilezione sulla costruzione della melodia che rappresenta il principale marchio stilistico del nuovo album di Martyn. Ed è questo, probabilmente, il principale motivo di discussione (e divisione) tra detrattori ed estimatori del disco.
Cominciamo col dire che in "Ghost People" non ci sono brani che fanno sobbalzare dalla sedia e gridare al capolavoro; nessuna "All These Worlds" o "Far Away", per intenderci, ma un personale tributo alla old school techno che suona comunque attuale e che, probabilmente, piacerà di più agli addetti ai lavori (DJ e produttori in primis) che all'ascoltatore che volesse avventurarsi in un universo nuovo e inesplorato. E' difficile scegliere dei brani che sintetizzino la svolta di Martyn (per alcuni fin troppo inattesa): senza dubbio il singolo "Masks", dove suoni stratificati e psichedelici si aggiungono gradualmente al beat minimale che costituisce l'ossatura del brano, seguito dalle drums spezzate e dal caleidoscopio di "Distortions" e dall'ottima "Popgun", che con il suo incedere percussivo, gli archi sintetici e gli sporadici campioni vocali è senza dubbio una delle tracce migliori. La seconda metà del disco ripropone più o meno gli stessi ingredienti, tra voci, brusii e suoni che sembrano usciti da una Roland TR-909 usata nel 1992: materiale che farà andare in estasi gli amanti della club-culture e un po' meno chi si aspettava un altro lavoro da ascoltare in tranquillità, seduti in poltrona e con gli occhi chiusi. Tuttavia, il buon Martyn non si perde d'animo e chiude l'album con un gioiello che mette d'accordo tutti: "We Are You In The Future", un'odissea spazio/temporale dalle continue variazioni, un riassunto della techno degli ultimi vent'anni che ricorda più da vicino quella ricerca della melodia che caratterizzava "Great Lenghts".
Come spesso accade, anche in questo caso la verità sta nel mezzo: "Ghost People" non è nè un capolavoro nè una delusione completa, ma un lavoro in cui Martyn prova a rinnovarsi e presentarsi sotto nuova veste. Indubbiamente il suo coraggio va apprezzato; tuttavia, una certa staticità e la durata esigua del tutto (poco più di 45 minuti) fanno sì che il secondo disco del DJ e produttore olandese non soddisfi del tutto le aspettative e, soprattutto, non regga il confronto con il suo eccellente predecessore.
Voto: 3,5
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