Se si volesse sintetizzare il percorso artistico di Martijn Deijkers si potrebbe scomodare l’ouroboros, il simbolo scelto da Friedrich Nietzsche per spiegare la teoria dell’Eterno Ritorno: un serpente che si morde la coda. Lungi dal voler sollevare dibattiti filosofici, si può affermare che il decennio che separa Great Lenghts da Voids assomiglia a un avvolgersi su se stessi, un movimento circolare in cui la fine coincide paradossalmente con l’inizio.
Dopo l’eccellente esordio del 2009, il nostro realizza infatti Ghost People e The Air Between Words, due album pubblicati per etichette prestigiose, la Brainfeeder e la Ninja Tune. I lavori, pur contenendo brani apprezzabili e atmosfere dancefloor-oriented, non convincono del tutto, in particolar modo The Air Between Words, deludente esplorazione dei territori minimal e microhouse. E poi? Dopo aver prodotto brani per altri artisti, Deijkers approda alla label berlinese Ostgut Ton, tra le più influenti della scena techno degli ultimi anni. Che sia l’atmosfera underground (Great Lenghts viene distribuito dalla 3024, fondata dallo stesso Martyn) o il desiderio di tornare alle proprie origini, sta di fatto che Voids riprende le sonorità del passato, ricollegandosi in parte alle suggestioni dell’esordio. Dalle “grandi durate” agli attuali “vuoti”, il trait d’union sembra essere l’attenzione per l’invisibile e l’indeterminato; “l’aria tra le parole”, per citare il titolo del disco precedente. A questo si aggiunge il dolore per la scomparsa di un amico, il DJ Marcus Intalex, con tutti i vuoti (cosmici, esistenziali) che un evento come la morte sembra aprire o generare.
È quindi un Martyn più ispirato quello che troviamo nel suo ultimo lavoro, un producer esperto che, in poco più di quarantaquattro minuti, cerca di elaborare un lutto (un “vuoto”) e, al tempo stesso, recuperare un peso o una consistenza: quelli della propria musica. Ecco spiegato il mix di garage, dubstep, techno, house e drum and bass che caratterizza Voids, un disco che dopo l’intro rarefatta di "Voids One" (suoni, voci, rumori di porte che sbattono: la rievocazione di un incidente mortale?) entra subito nel vivo con un tris di brani particolarmente azzeccato: Manchester, dove i broken beats e le tastiere accompagnano una voce che afferma: “Deep deep talent/And we’ve lost a big one”; l’acida "Mind Rain", che evidenzia un layering sofisticato e coinvolgente; "Nya", altra gemma ricca di sonorità oscure e drum scomposte, da ascoltare attentamente in cuffia. A partire da "Why" le ritmiche si fanno più regolari, vicine alla ambient-house degli Orb (è il caso della traccia in esame, in cui qualcuno si domanda “Why?” in maniera evocativa e coinvolgente) o alla techno di casa Ostgut (la tirata "Cutting Tone"). Non mancano momenti spiazzanti come "Try To Love You", costruita con dei loop di pianoforte che provocano una sensazione straniante ma piacevole, mentre la conclusiva "Voids Two" sviluppa le idee dell’introduzione in un brano dal sapore drum and bass (la batteria ricorda vagamente "Firestarter" dei The Prodigy), punteggiato da una voce che ripete ossessivamente “Explosive decompression”.
Terminata la riproduzione si ha l’impressione di aver ascoltato un concept-album sulla perdita e l’abbandono, un’opera personale e con una funzione terapeutica per chi l’ha realizzata. Che il lutto sia stato elaborato? Difficile saperlo, tuttavia è difficile non apprezzare Voids, un lavoro che pur strizzando l’occhio alle sonorità di Great Lenghts (con il rischio di perdersi in pericolosi déjà-vù) spicca per una certa ruvidezza e potenza complessiva, probabilmente assenti nel suo illustre predecessore.
Bentornato, Martijn.
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