Offro oggi un contributo all'opera di uno dei più interessanti esponenti del Jazz contemporaneo giapponese, osannato in patria e tributato dei meritati riconoscimenti anche negli Stati Uniti. Mi riferisco a Masahiko Satoh, pianista di Tokyo classe 1941, che proprio alla prestigiosa Berklee School of Music di Boston ebbe modo di studiare composizione e arrangiamento (fra il 1966 e il 1968), dopo anni di gavetta e ricerca in patria. Il debutto era avvenuto con l'epocale "Palladium", nel 1969, che gli era valso un "Japan Jazz Award" e soprattutto aveva contribuito a diffondere la fama dell'artista anche altrove, specie in Germania, ove il Nostro si era trovato a collaborare col compositore Wolfgang Dauner, fautore di "free-forms" avanguardistiche mediate dall'influenza di certa opera di Stockhausen. Il suo capolavoro (doveroso segnalarlo agli specialisti) è  "Yamataifu", datato 1972, cui segue un'abbondante e composita discografia, peraltro difficilmente consultabile anche in ragione dei tanti, dispersivi progetti collaterali di varia natura che hanno impegnato Masahiko fra i Settanta e gli Ottanta.

Su uno di questi progetti, però, varrà la pena di riporre la nostra attenzione, per qualità esecutiva d'insieme e importanza del prodotto in sé: "Amorphism", pubblicato nel novembre 1985, vede il pianista alla (carismatica) guida di un terzetto di autentici fuoriclasse dello strumento, terzetto impreziosito dalla presenza di monumenti del calibro di Steve Gadd alla batteria e del bassista Eddie Gomez (che i più ricorderanno negli Steps Ahead), qui impegnato, con risultati notevoli, al contrabbasso. "Amorfismo" è la proprietà degli oggetti che non hanno forma definita, in altre parole "materia neutra" in attesa dell'altrui azione plasmatrice; tale è il concetto di "forma musicale" assunto da Masahiko nell'album in questione, con debiti riconosciuti nei confronti di certo Jazz modale anni '60 e, nella prassi esecutiva, di Chick Corea, forse la fonte d'ispirazione più evidente fra le numerose riconoscibili. Il pianista si presenta in studio con semplici idee, spunti isolati e acontestuali cui conferire un aspetto meglio definito, e quanto si ascolta è il risultato di un lavoro che prende forma in divenire a partire da consolidati, elementari schemi esecutivi da sempre familiari alla formula jazzistica del terzetto: spazi solistici equamente redistribuiti fra le tre individualità pensanti (nella prestabilita successione piano-contrabbasso-batteria), e abbondante dose di empatia collettiva a legare il tutto in un insieme coerente. La struttura armonica dei pezzi proposti in repertorio è molto semplice, scarna, oserei dire "scheletrica", con particolare predilezione per soluzioni monotonali e modulazioni scalari tradizionali. Quel che più colpisce è invece l'approccio timbrico: la perfetta qualità della registrazione offre il giusto risalto a sonorità nette, pulite, cristalline; e colpisce la velocità (mista a precisione) esecutiva di certi brani, frenetici itinerari di impressionante virtuosismo strumentale interpretati con superba sensibilità e maestria. Pur nella sostanziale condivisione di stilemi noti, l'impatto sonoro d'insieme sa sorprendere per la modernità delle soluzioni adottate: vedasi la tendenza di Masahiko ad esporre il tema di alcuni pezzi ricorrendo all'accostamento (ibrido) di piano classico e tastiere elettroniche, a ribadire i punti di contatto con la coeva Fusion sperimentale e con certe atmosfere in auge negli anni Ottanta, pur senza snaturare l'autenticità del "feeling" (ora aggressivamente concitato, ora rilassato e meditativo) di ciascuna composizione. Una particolare nota di merito spetta all'indispensabile lavoro svolto dal grande Steve Gadd (ma semmai, è un'ulteriore conferma, considerando l'elevatissimo numero di "gioielli" discografici cui il nome del batterista è associato): formidabile nelle micro-variazioni al rullante (il padre di Gadd aveva suonato il tamburo nella banda dell'esercito statunitense), il batterista di Rochester si segnala qui nel creare un "groove" straordinario, ricco di "ghost notes" e impressionante per precisione e pulizia esecutiva, anche quando la complessità di certe ritmiche (dispari, non di rado) si fà particolarmente evidente; l'unico batterista che da questo punto di vista si possa avvicinare a Gadd (e che, non a caso, ha spesso collaborato con lui) è Dave Weckl. Neanche Gomez, peraltro, sfigura tra i complicati passaggi di "Amorphism", e la sua familiarità con la prassi performante del basso elettrico è palese nell'incisività dei colpi e nella graffiante profondità di certi legati.

Mirabile manifesto di tecnica e rapidità d'azione è l'apertura di "Escape Velocity", ove trovano degna esposizione tutte le qualità precedentemente ricordate, nonché la maestria di Masahiko nel creare estemporanee "architetture" asimmetriche di rara bellezza, giocando con la ritmica tumultuosa e isterica. L'esatto contraltare stilistico di questa "fuga" è rappresentato dalla successiva "Shun Yo Sho", ove pare d'essere in presenza di una "classicheggiante" riedizione dei più recenti Weather Report, col contrabbasso al posto del "fretless" di Victor Bailey; è proprio Gomez a proporre suggestive linee dialogando in pieno stile "call and response" col piano del leader, le cui delicate e carezzevoli cadenze caratterizzano il brano per gran parte del suo svolgimento. Più sostenuta "Acid Reaction", dominata dal drumming di Steve Gadd e dai riff "sintetici" di Masahiko, prima di lasciar spazio ai "pensieri solistici" di piano e contrabbasso; discorso analogo per la nevrastenica, claustrofobica (e a tratti dissonante) "Ken Sen", prima della parentesi altamente sperimentale, e affascinante, di "Utpala": brano sostanzialmente delicato, d'atmosfera, eppure impreziosito da uno sfondo tastieristico da brividi, in cui Masahiko appare più che mai vicino al connazionale Sakamoto. La classica ciliegina sulla torta per un album che, comunque, ha ancora in serbo la "tripartita" "Quid Pro Quo", in cui tutti e tre gli strumentisti forniscono ulteriore prova di bravura, e la lenta e conclusiva "Sai Ka U", pianistica per la maggior parte.

Non è il capolavoro di Masahiko, ma quattro stelle questo album le merita tutte.    

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