Per la mia generazione questi tre hanno costruito una sorta di mitologia comica. Situazioni, frasi, interiezioni che sono entrate nella nostra quotidianità come costante commento ironico-dissacrante, un po' come certe esclamazioni memorabili del ragionier Ugo.

Nelle sue prime manifestazioni filmiche, il trio aveva fornito prove di una certa intelligenza: i film nel film (dal neorealismo al gotico), i viaggi metafisici, il taglio esistenzialista da commedia agrodolce. Poi, forse per la bellezza dei primi tre, ho iniziato a ripudiare tutti i successivi, me ne sono quasi disinteressato. Toccato il fondo con "Reuma park", da qualche anno il trio ha iniziato la risalita.

Quest'ultimo lavoro ha un certo rigore nella scrittura, come per una necessità di consolidare l'intelaiatura da commedia perché le battute e i meccanismi comici tutto sommato sono sempre quelli (ma mai sgradevoli). E l'impianto funziona, si mostra anzi calzante nell'individuare diversi temi, che tra un sorriso e l'altro fanno capolino implacabili. Si assapora quel mondo milanese (o giù di lì) che vive di sottili antipatie, un male di vivere latente che è figlio di un benessere diffuso. I figli-sposini condannati all'infelicità, il continuo logorarsi tra due soci d'azienda che lavorano insieme da trent'anni ma vivono due punti di vista differenti e anzi inconciliabili. La vita è incardinata su gigantesche menzogne, che reggono su tutto quanto come colonne portanti.

Nel mostrare il fallimento di un pantagruelico matrimonio, il trio (con Massimo Venier alla regia) isola e certifica le contraddizioni di una borghesia che si mostra spesso maligna, maliziosa, invidiosa, oppure ingenua, infantile. Sempre a fare i conti con il denaro. Ogni cosa ha un costo in migliaia di euro.

Gli ingranaggi della catastrofe sono abbastanza lineari e man mano che si assommano fanno emergere una certa ripetitività. Tutto va a rotoli, ma quello è il meno. Tra una goliardata e l'altra vengono sganciati alcuni ordigni che smascherano quella vita piena di ipocrisia.

Alla fine, ci si salva grazie a un mantra: "Ogni fine è un nuovo inizio". Dopo il tracollo rovinoso, non si cerca più di salvare le apparenze, ma si va alla ricerca di una felicità nuova, differente. Una chiusura un po' cerchiobottista che però non sminuisce troppo la carica corrosiva verso quella borghesia milanese che si illude di essere felice nel coltivare la menzogna, l'odio malcelato per il commensale che sta di fronte.

Un ordigno che risulta efficace per la funzionale caratterizzazione della schiera di personaggi. Bastano due tratti ciascuno, poi le alchimie si formano ed esplodono con l'incontro-scontro dei caratteri e l'imprevedibile disvelamento di alcune verità scomode. In tutto questo, alcuni comprendono alla fine gli errori commessi, la fallacia di una vita di apparenze. Certi hanno la forza di prenderne coscienza, altri si lasciano vivere un po' passivamente, ma infine fuggono anch'essi da quel veleno quotidiano.

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