Una gelida mattina d'inizio dicembre nella bassa. Nebbia e campi coltivati è ciò che la natura offre a chi alle prime luci del giorno, mestamente, attraversa la valtrebbia per raggiungere la città. Qualche volta, il vento, freddo, tagliente come una katana, arrivando dall'est spazza via la foschia e si possono vedere le Alpi sullo sfondo, che, come in un quadro mai dipinto da Dalì, si alzano improvvisamente da quella che appare come una sconfinata pianura di nulla. In mattine come questa si specchiano nel ghiaccio sulla strada, le Alpi, e i campi di granturco sono coperti da una leggera spolverata di neve. L'asfalto è una lastra di ghiaccio, rettilinea, che lacera e trancia di netto gli appezzamenti di terra che si ripetono tutti uguali, divisi da alberi verdi e bianchi e da altri secchi e raffreddati, pudicamente ignudi.

La mia Punto a metano arranca, sembra un piccolo igloo, bianca e gelata com'è. Un disco corre silenzioso. Sta avvenendo tutto nella mia testa. A volte mi ritrovo a persarmi solipsista, mi sento un po' in colpa. Sono solo. Nudo in mezzo alla neve, è curioso come la natura abbia dato solo a pochi alberi la capacità di essere sempreverdi, non importa quante foglie perdano, perchè ne spuntano sempre di nuove. Sono tutti intorno a me, mi deridono. Ormai ho smesso di sperare di essere come loro, sono fiero e pieno di odio e pregiudizio. E urlo, e scuoto i piccoli germogli che sbucano dalla neve, ma per quanto possa bruciarmi la gola, il mio diaframma non vince la pressione del mio cranio. Tutto è bloccato, e riecheggia, rimbomba risuona tra quelle anguste pareti.

Alienati. Alieni, la mia è la generazione x-files, cresciuta coi telefilm americani e la massificazione del proprio io. Io mi distinguo dalla massa, ma non per mia scelta, sono una vittima della mia stessa persona, che non mi permette, nonostante tutti i miei sforzi, di essere un completo idiota. Verga avrebbe scritto un libro su di me, tra i Malavoglia e Gesualdo, ma lui ancora non poteva sospettare del dramma del piccolo borghese, che cresce con l'obbligo della mediocrità.

Clementi ha smesso di parlare solo di sé, l'idea che mi sono fatto è che abbia smesso di essere spaventato dall'inesistenza del proprio futuro, dall'incapacità di trovare un'illusione tale da crescere mentalmente stabili, ormai ci vive nel suo futuro, e sguazza nella sua immagine di quarantenne disilluso, ché il mondo non si aspetta altro da lui, non c'è più nulla di strano nell'ossessione per il tempo che scorre, e urla placidamente per chi ancora ha il timore vivo negli occhi, canta, senza cantare, di chi guarda avanti a sé e vede solo il nulla a sorreggere le Alpi.

Questo è un regalo a tutte le generazioni che non hanno avuto un futuro, compresa la sua.

Lo metterò sotto l'albero, anche se non era quello che avevo chiesto a Babbo Natale, ma apprezzo il pensiero, con una dedica speciale: Da Mimì, con amore, a tutti coloro che hanno deciso di non tornare più a casa, di non trovarsi un lavoro serio.

Un disco che non è nuovo, è vecchio, è un manuale d'istruzioni lasciato ai posteri, su come superare i 30 anni, quando a 16 hai ascoltato "Lungo i Bordi" e l'hai sentito come fosse tuo. Che fortuna, noi giovani, sempre con la strada già battuta, la pappa pronta...

E così veniamo avanti
simili in tutto a quelli di ieri
aggrappati a un'immagine
condannata a descriverci
dimmi, non è così?

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