La scena sonora di Palm Desert è famosa soprattutto per Queens of the Stone Age e Kyuss. Qualche amante di Josh Homme ha sicuramente ascoltato anche le sue Desert Session. Per gli amanti del bassista pelato Oliveri, ricordiamo i Mondo Generator. Per non parlare anche degli Eagles of Death Metal. Una scena sonora, quindi, molto prolifica. Ma pochi, perlomeno nel nostro paese, sanno che in quel crogiolo di deserto, sostanze allucinogene e “desert rock” nacquero anche i Masters of Reality.
Fondati nel 1981 da Chris Goss, essi hanno dato alla luce ben 6 studio albums e 3 live; nel corso della loro carriera si sono avventurati vari musicisti, tra i quali possiamo citare perfino il batterista dei Cream Ginger Baker. E nel corso dei vari album si possono ascoltare parecchie influenze, dalla psichedelia al rock stoner passando anche per una sorta di rock pop; molte anche le influenze di stampo blues. Chris Goss inoltre è stato produttore o co-produttore anche dei gruppi sopracitati (sua la produzione di album come “R” e “Songs for the Deaf”). Un personaggio di rilievo, oserei dire.
Il live proposto in questa recensione è datato 1997 ed è stato registrato alla Viper Room di Los Angeles e raduna molte delle perle che il Nostro ci regalato durante gli anni. Un intro perfetto l’omonima traccia d’apertura dal tono romantico, che non durerà molto in quanto le chitarre stanno già pensando a scaldarsi per la successiva “The Blue Garden”, cantata da Chris in modo mai strabordante e sempre composto. Come inizio non c’è male. La successiva “Alder Smoke Blues” è a tutti gli effetti un blues accompagnate da chitarre graffianti, riff semplice ma efficace e guitar-soli d’ effetto. A questo punto il pubblico è bello caldo e carico, si passa al piano di “Doraldina’s Prophecies” per arrivare alla hit “She Got Me” e i suoi riff di chitarra che ti invocano a ballare e a scatenarsi. Tutto molto bene finora. Ancora meglio quando per un attimo si abbandonano chitarre elettriche per imbracciare quella acustica nel mentre si presenta un gradito ospite: Scott Weiland. “Jindalee Jindalie” al tempo era un inedito (che uscirà poi nel 2004) e cantata poi da un personaggio del calibro di Scott non poteva che essere una graditissima sorpresa per quella sera. Una traccia che si discosta molto dal repertorio fino allora proposto, uno stacco di chitarra acustica contornata da violino veramente molto dolce. Ci sta. Ci si torna ad animare presto però con “John Brown”, “Tilt a Whirl Swingeroo Joe” e “Ants in the Kitchen Goin’ Down”, tre tracce all’ insegna del rock blues e rock stoner più spericolato e carico. Chiude il lento incedere sognante di “100 Years”, tutto sommato una degna chiusura.
Le conclusioni che mi sento di dare su questo disco: nulla di nuovo sotto al sole, niente di sperimentale o bizzarro; solo un gran disco di buon rock eseguito veramente bene. Coinvolgente sin da subito. Da ascoltare. Voto: 8
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