I Mastodon, nonostante la relativamente giovane età, avevano, già prima di questo album, fatto parlare molto di se. La commistione tra diversi generi, la capacità di unirli fra loro senza far sembrare il tutto un'accozzaglia di suoni sconnessi, la grande tecnica e un songwriting mai banale erano elementi che, sin dal primo "Remission", si intravedevano e lasciavano trasparire un grande futuro per il quartetto di Atlanta.
Incredibile a dirlo, sono volati già nove anni da quel fulminante esordio, e sono cambiate parecchie cose: la scena musicale metal, come pronosticato più volte da tanti, presi sul momento per fatalisti, ha perso vigore in maniera impressionante e, a parte alcuni nomi conosciuti e qualche giovane di belle speranze, i titoli veramente in condizione di essere presi in considerazione sono pochi e spesso si rivelano essere al di sotto delle aspettative. In questo marasma generale i Mastodon emergono, ormai a metà strada tra i già detti, giovani e grandi nomi. Semplice individuarne il motivo: sebbene con soli tre album in studio all'attivo (prima di "Crack The Skye"), i Mastodon non hanno finora sbagliato un colpo, evolvendosi gradualmente e senza forzature, facendosi conoscere dal grande pubblico e diventando, già con "Leviathan", fra i gruppi più apprezzati della scena estrema. "Blood Mountain" rappresenta il passo successivo, che mantiene intatte le caratteristiche del "Mastodon Sound", rielaborate in chiave diversa, mai banale e più sognante, ma con una varietà che a volte sembra privare il lavoro di quella omogeneità propria dei capolavori. Dunque, nonostante tre dischi validissimi all'attivo, i quattro di Atlanta sembrano ancora "work in progress" e, data la giovane età, verrebbe da dire, ci macherebbe altro. Dunque i nostri, nonostante la possibilità di soffermarsi su un solo genere e vivere di rendita per anni, continuano la loro evoluzione musicale; ecco che si arriva a quel concentrato di sublimità che è "Crack The Skye".
"Crack The Skye" (che per MIA comodità chiameremo d'ora in poi CTS) rappresenta, si spera solo per ora, l'apice compositivo dei Mastodon. Ma andiamo con ordine.
CTS è composto da sette tracce. Già questo è un indizio: i nostri evitano cali di rendimento e selezionano le tracce, incastrandole come pezzi di un maestoso puzzle, evitano sbrodolate strumentali (secondo me vero tallone d'Achille di "Blood Mountain"), e mantengono alto il livello di attenzione dello spettatore.
Si parte con Oblivion: inizio lento ed inquietante che sa molto di Tool, entrata in scena della batteria che scandisce il tempo e passa poco perchè la canzone prenda vita. Si nota subito il cambiamento di distorsione nelle chitarre e la voce di Hinds che risulta più carezzevole e contemporaneamente inquietante rispetto alle precedenti uscite; da qui in poi la canzone sembra seguire un'evoluzione naturale, che porta alle tinte di un paesaggio sognante, nonostante un'atmosfera di perenne attesa, come se stesse per accadere qualcosa di inaspettato e pericoloso.
Divinations sembra trasformare in realtà le sensazioni percepite durante la traccia precedente. Inizio veloce, voce graffiante e il subentrare di una melodia claustrofobica che guida il malcapitato ascoltatore per gli stessi sentieri percorsi con Oblivion, ma visti sotto una luce diversa, che sa di pericolo ed imminenza, che si spegne sull'inizio della traccia successiva.
Quintessence sembra nell'intro simile alla precedente Divinations salvo poi movimentarsi anch'essa, anche se in modo diverso: se Divinations aveva come colonna portante la voce graffiante di Sanders, tra acrobazie batteristiche degne del miglior Colaiuta, Quintessence ha un'incipit lento e inquietante, che si snoda attraverso percorsi acustici fuori dalla norma, che sembrano rasentare un'inesorobilità acuita dal ritornello andante che spezza il ritmo della canzone, e allenta la tensione funzionando come valvola di sfogo per l'inquietudine creatasi nei versi sognanti di Hinds.
Detto che questo disco non ha in nessuna delle sue tracce un punto debole, volendo trovare a tutti i costi una traccia che spicchi sulle altre, The Czar sembra la più adatta a ricoprire il ruolo di regina del disco: altro inizio sognante, strofe ripetute incessantemente, quasi una nenia, che culla l'ascoltatore nell'atmosfera che, almeno nella prima parte della canzone, sembra più rilassata rispetto alle altre tracce. Si, prima parte, perchè questa suite di oltre dieci minuti è divisa in quattro parti, quasi un'omaggio ai gruppi prog di cui sembrano evidenti le influenze in questo disco. La seconda parte entra in scena silenziosamente, un leggero cambio di tempo e la voce di Hinds che si fa più secca, a discapito dell'avvolgenza ma a beneficio dell'immediatezza. La terza parte ha un cambio di tempo fulminante, con ritmo incalzante ed orecchiabile, che fa del ritornello il suo cavallo di battaglia; altrettanto netta la distinzione tra terza e quartaparte, con rallentamento improvviso di tempo e, dopo una batteria che sa molto di pericolo incombente, ancora Hinds, che, dopo il duetto con Saunders nella parte precedente, torna a cullarci, ma con una nota d'urgenza nella voce, che va spegnendosi di pari passo con la canzone.
Ghost of Karelia inizia con una chitarra avvolgente che si snoda attraverso percorsi soprannaturali e introduce ancora una volte la voce sognante di Hinds; brusco cambio di tempo con annesso virtuosismo batteristico e Hinds che, pur senza urlare e ringhiare come nei precedenti album, sembra arrabbiato come non mai; ancora un cambio di tempo per tornare alla chitarra acustica cullante per scivolare in un'altro cambio di tempo meno fulminante ma significativo, in quanto l'umore della canzone non sa più di rabbia ma di rassegnazione.
In questo clima si arriva alla title-track. Elettrica ed acustica si intrecciano bene come non mai e l'incipit ammonitore della batteria è il tappeto perfetto per l'entrata in scena dell'ospite d'onore del disco, nientepopodimeno che Scott Kelly dei Neurosis, che fa sentire che gli anni di attività sulle spalle non hanno minimamente intaccato il suo growl; la canzone si muove su una continua alternanza tra i ruggiti di Kelly ed i sussurri di Hinds, contraltari perfetti in una canzone che, senza grossi cambi di tempo rispetto alle compari, si muove sul terreno atmosferico cupo e fatalistico, il preferito di Kelly, che dimostra di sapersi inserire alla perfezione anche in un contesto diverso da quello dei suoi Neurosis, anche se i Mastodon sembrano aver fatto di tutto per metterlo a suo agio, peraltro riuscendoci alla perfezione.
Una melodia semplice ed efficace ci guida fra sentieri finalmente tranquilli; The Last Baron è una gigantesca (usare "mastodontica" mi sembrava troppo ovvio) jam session che si trascina, sfiancata dal viaggio compiuto nelle altre tracce, ma ancora fiera, verso la fine della galleria sognante ma costringente che stava stingendo troppo le sue maglie; sembra finita, ma con un'ennesimo colpo di coda i Mastodon hanno un'ultimo cambio di tempo che rende movimentata la canzone; sembra una corsa verso l'uscita del tunnel, come se un'ultimo ostacolo si fosse frapposto fra l'ascoltatore e l'uscita; Hinds continua a cantare, ma nonostante la lontananza apparente della sua persona che emerge dai momenti del cantato (ovvero gli effetti di eco che si sentono durante lo stop delle chitarre), la sua voce crea un'effetto sferzante sulle orcchie dell'ascoltatore, che, ipnotizzato dalla musica non può sfuggire e si fa trascinare lentamente nell'abisso creato dalla sua voce, prima di arrivare con un ultimo sussurro d'orgoglio alla fine del viaggio, che si conclude con una chitarra che definire epica sarebbe riduttivo che chiude il disco.
Eh si. Finito. Tutto finito. Non sembra possibile, non può essere possibile. Invece lo è.
Il disco è finito. Purtroppo per voi non la recensione.
Chiedo umilmente perdono, ma vorrei soffermarmi sul concept di quest'album. Credo che in questo caso sia stato proprio il concept a dare al lavoro dei Mastodon quell'omogeneità spesso cercata ma mai trovata in questa chiave così perfetta, dunque ritengo giusto spendere due parole quantomeno sull'argomento trattato.
In sostanza l'album tratta di un paraplegico che, non potendosi muovere fisicamente, viaggia con la mente; ad un certo punto la mente si distacca da corpo, la sua stessa anima, il soffio vitale, esce dal mero involucro fisico, e viene trasportata nel mondo degli spiriti; il corpo del ragazzo non è morto, ma lui non ha più alcuna reazione; dunque il suo corpo viene trasportato all'interno di una setta russa, dove Rasputin, attraverso un rito magico comprende il problema del ragazzo; intanto il ragazzo capisce di non poter rimanere nel regno degli spiriti, essendo vivo, dunque cerca di fuggire; frattanto Rasputin, dopo aver fatto entrare nel suo corpo l'anima del ragazzo viene ucciso, ed entrambi si ritrovano in una crepa nel cielo (da cui il titolo). Rasputin aiuta il ragazzo a fuggire, ma in dirittura d'arrivo il Diavolo cerca di trascinare le loro anime all'Inferno, mentre in una corsa contro il tempo i due corrono verso la salvezza (probabilmente sia per il ragazzo, per tornare nel suo corpo, che per Rasputin, per redimersi dei peccati aiutando il ragazzo).
Per me questo è un masterpiece. Un capolavoro deve saper dare emozioni, deve saper catturare, deve essere praticamente perfetto sotto ogni punto di vista, e quest'album per me lo è. Ho finito di rompervi le scatole. Alla prossima.
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