Per molti “Show Yourself” è stata la pietra dello scandalo. Purtroppo in ambito metal è spesso difficile accettare le cose semplici, dirette, orecchiabili. Già a suo tempo ho saputo apprezzare il singolo come una versione ancor più asciutta del metal pop già ottimamente enunciato da “The Motherload”, ma ora che è uscito il disco tutte le singole canzoni assumono tratti più evidenti e il quadro si caratterizza meglio.

Emperor of Sand è un ottimo disco, non giriamoci intorno: i Mastodon proseguono nel loro percorso di ampliamento del pubblico possibile, ma non rinunciano a nulla di ciò che li ha resi grandi. Ancor più del predecessore, il nuovo lavoro è un patchwork fittissimo di stili, capace di accogliere istanze quasi contrapposte tra loro. È orecchiabile, scorre via con grande agilità e senza grossi scogli, ma le trame dei tessuti musicali sono preziose come e più di prima.

Bisogna un po’ sfatare certi miti: prendiamo Crack the Skye, bellissimo, d’accordo, ma ascoltando oggi quei brani ci si rende conto che i Mastodon hanno progressivamente infittito la loro musica. Quello che una volta veniva detto in 10-12 minuti oggi viene snocciolato in 6. Il processo quindi è massimamente ambizioso: compattare tutto il proprio armamentario musicale in strutture più agili e minutaggi esigui, aggiungendoci una patina di orecchiabilità mainstream metal che può infastidire solo i fondamentalisti, quelli che pregano Chuck Shuldiner ogni giorno (lungi da me criticarli per questo, ma un po’ di apertura mentale!). “Precious Stones” e “Steambreather” sono in questo senso due bombe di impressionate impeto e melodiosità.

I Mastodon dimostrano la loro estrema modernità e voglia di mettersi in gioco proprio nel momento in cui invece di gonfiare ipertroficamente le loro composizioni, mirano invece alla sintesi; invece di accontentare i fan con parti vocali demoniache e ubriache si spingono oltre i loro limiti anche canori e fanno cantare ormai in quasi ogni pezzo il già indaffarato Brann Dailor; propongono un’immagine ironica nei confronti dell’immaginario metal, anche attraverso videoclip ormai costantemente parodici. Insomma, da sovrani del metal nel 2009 non si sono seduti su un trono facile. Inizialmente hanno sbandato, con The Hunter, disco troppo frettoloso eppure pieno di spunti che in seguito hanno dato frutto.

Ma cos’ha questo album in più rispetto al precedente? Beh, da una parte è ancora più sintetico, asciutto, compattato in modo quasi eccessivo, pur di non sprecare una goccia di talento. Ma non solo: con Emperor of Sand i quattro di Atlanta riprendono in mano certe forme tendenti al progressive, ma non tornano indietro al virtuosismo puro di episodi come “Capillarian Crest” o “The Last Baron”. Se vogliamo, il prog di alcuni passaggi qui presenti è ancor più maturo, perché non ha bisogno di mostrare il cazzo lungo per convincere e affabulare. La tecnica sempre eccellente è asservita a forme ancor più digeribili, ma parimenti affascinanti. Un prog puramente funzionale, come quello di Selling England by the Pound rispetto a quello di Foxtrot, facendo le debite proporzioni. Musica che scorre meravigliosamente, ma più la ascolti più ti rendi conto di quanto è ricca, stratificata, complessa ma resa poi fruibile e perfettamente amalgamata.

Nelle maglie strettissime delle composizioni, trovano spazio alcuni elementi ormai inaspettati. Anche qui, andando contro corrente, trova spazio la lentezza, la delicatezza, il pathos: l’effetto è sbalorditivo, in mezzo ai clangori metallici di “Roots Remain” c’è tempo per una sezione lenta, ovattata, con un assurdo assolo di triangolo. Ed è un esito rimarchevole: nella furia inesausta, la lentezza acquista un’efficacia nuova. Addirittura il brano si chiude su dense note di piano. E via, si riparte a tutta birra. Anche “Word to the Wise” alterna bene scariche metalliche portentose a elementi dissonanti come un lento tamburello. "Ancient Kingdom" si chiude con rintocchi di campane che liberano l'anima.

Uno degli apici del disco è “Jaguar God”: da una suite uno si aspetta e desidera delle alchimie pazzesche, che pure ci sono, ma sono normalizzate, quasi messe in secondo piano. La massima evidenza è data ad alcuni contrappunti di batteria semplicissimi, e cionondimeno efficacissimi. Questo fatto è rivelatore dell’impostazione generale della band: non c’è gusto a fare le cose complicate e sbatterle in faccia a chi ascolta, molto più difficile nascondere la complessità, lasciarla come premio agli ascoltatori più fini, e mettere in primo piano la semplicità, che non è meno nobile, quando così ben concepita.

Per il resto, non c’è quasi bisogno di ripetere la solita litania: riff pazzeschi, sovrapposizioni di riff ancor più belle ("Ancient Kingdom"), epicità, ritornelli ben fatti, suoni grassi e curatissimi come sempre. Stupisce invece la capacità di trovare spazio per tanti assoli di Brent Hinds che evidentemente aveva voglia di far piovere note. Ecco, anche in questo Emperor of Sand rappresenta un miglioramento rispetto a Once More: nella sinteticità riesce a metterci l’esatto contrario, gli assoli di chitarra. Non che prima mancassero, ma qui sono proprio abbacinanti, spaziali, estatici. Nonostante questi trip di Hinds, tutto il resto concorre all’obbiettivo di non rompere la trance ritmica del disco, che davvero procede come una scheggia. Una scheggia ricamata costantemente da quel geniaccio di Brent Hinds. Velocità e rifiniture nobilissime: un sogno. Anche l’asciutta “Show Yourself” possiede il suo bell’assolo, breve ma fondamentale insieme all’impasto di chitarre per nobilitare il brano. Anche lì, confonderlo con un pezzo alla Foo Fighters significa avere un orecchio poco attento.

Le bordate di “Scorpion Breath” sono un terremoto che dovrebbe emozionare anche i più nostalgici. Scott Kelly non delude, anche se è difficile superare cose come “Crystal Skull” o “Crack the Skye”. Ecco, la speranza è che questo disco faccia ricredere chi isola la grandezza dei Mastodon ai dischi tra il 2004 e il 2009. Certo, ci vuole un minimo di apertura verso concetti eretici come semplicità (apparente), capacità di sintesi, voci pulite, stacchi estatici (magnifico anche quello di "Clandestiny"). Per una band che ha fatto cose come “Aqua Dementia”, affrontare questi fantasmi (per una certa visione del metal) significa osare, significa non sedersi.

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