Per chi non lo conoscesse, Matisyahu è lo pseudonimo di Matthew Miller, americanissimo rapper ebreo, fino al 2011 ortodosso e con un passato da pot-head.
In Italia, l'unico brano del cantante effettivamente entrato in chart è stato "King Without A Crown" del 2005, quindi non c'è da stupirsi che Matis abbia volato fino ad oggi sotto il vostro radar.
Fino al 2011 il rapper era diventato in patria un'icona jew: grazie alla kippah, alla barbona coi riccioli e al tzitzit uniti alle tute Adidas, alle Nike Air Max e agli occhialoni all'ultima moda si trasformò in quello che la stampa d'oltreoceano definiva "hasidic reggae superstar" - il concerto Live at Stubb's Vol. 2 ne è la prova.
Nel 2011 Matisyahu, all'improvviso, si taglia la barba, posta una sua foto su Instagram dicendo addio al ruolo che aveva ricoperto fino a quel momento e con questa mossa perde un sacco di fan: forse non è più ebreo?
Quando poi, nel 2012, Matis pubblica l'album "Spark Seeker", fortemente elettronico e pop, la gente grida alla "mossa commerciale": Matthew in tante interviste nega di aver lasciato la propria religione, affermando di aver voluto solo "sciogliere i lacci che lo legavano" troppo stretto, ma inizia anche a postare foto che, in un certo pubblico, suscitano scandalo (lui senza kippah ad un concerto, lui coi capelli tinti, lui con il rapper Wiz Khalifa che fuma uno spinello...). Nel biennio 2012-2013 inizia a mostrarsi sempre con gli occhiali da sole, a volte biascica e "spezzetta" i testi dei suoi brani, si fa crescere i capelli lunghi e a volte non sembra neppure tanto in forma con la voce. Molti iniziano a chiedersi cosa sia successo al buon vecchio Matthew: le canzoni di "Spark Seeker" erano allegre, parlavano di figure bibliche e di Israele, con quello Shema gridato nella uptempo Tel Aviv'n. Eppure qualcosa non tornava.

Alla fine del tour del 2013, Matisyahu deve fermarsi: lesioni gravi alle corde vocali lo obbligano ad abbandonare per un po' il palco e soprattutto al silenzio.
E' stato probabilmente questo stop forzato che lo ha costretto a fare i conti con sé stesso e con l'uomo che non voleva mostrare al pubblico.
Recuperata la voce, prese lezioni di canto e rinnovata la collaborazione con il Dub Trio come band di supporto, Matis entra in sala di incisione.

Il risultato è anticipato da "Watch The Walls Melt Down", "guardo le mura crollare", che con le sue trombe (di Gerico?) prende le distanze dai sintetizzatori electropop e dalla spensieratezza del precedente album e sbatte in faccia all'ascoltatore una foto del Matthew Miller del 2013.
Nel pezzo Matis vuota il sacco: ha 34 anni e i suoi fan lo schiacciano in quella "scatola" di apparenza religiosa da cui tenta di fuggire in ogni modo, anche con le droghe. Sono gli stessi fan che non si accorgono che quello sul palco, traballante e stremato dalle sostanze e dall'alcol, non è lo stesso ebreo ortodosso che vorrebbero indietro.
Il pezzo è schietto e, oltre a scandalizzare i soliti, riesce a stuzzicare la fantasia dei fan più coriacei.

Finalmente, nel 2014 esce "Akeda", album che trae il titolo dal racconto tradizionale ebraico del quasi-sacrificio di Isacco da parte di Abramo, incluso nel Talmud, in cui Isacco dice al padre di legarlo stretto (akeda significa letteralmente "legatura") per non permettergli resistere al sacrificio che, a malincuore ma con grande fede in Dio, il padre si accingeva a fare.
La stessa parola, akeda, sembra quasi il senso costante dell'intero album, come in un dialogo tra il cantautore e Dio.
Il disco sembra svilupparsi come un concept album sulla vita interiore del cantante nell'ultimo anno, con i brani che ne analizzano vari aspetti in ordine quasi temporale.

"Reservoir" è un ringraziamento a Dio, per quello che gli ha permesso di sopportare e di trovare affrontando la propria sofferenza interiore.
"Broken Car" è il primo pezzo in cui Matis parla di una "casa rotta" in cui vive da solo: il brano anticipa quanto rilasciato solo successivamente in un'intervista dal cantante, ovvero il divorzio dalla moglie e l'allontanamento dai loro tre bambini, che il cantante aveva tenuto privato per non rovinare la propria immagine di buon ebreo.
Seguono "Watch The Walls Melt Down" e "Champion", pezzo leggermente slegato dal contesto in quanto unico non composto e registrato appositamente per il disco, ma che parla di coraggio e di lotta - in maniera simile al singolo "Live Like A Warrior" del 2012 - e funge da "intervallo" tra i primi tre pezzi "pesantucci" e il resto del disco, da cui inizia la "risalita".
"Built to survive" vede Matis constatare con un amico che, nonostante tutto il male, la vita va avanti.
Seguono "Ayeka (Teach Me To Love)" - che attinge dai salmi e parla del combattimento con i propri demoni a fianco di Dio -, "Black Heart" - che parla dello scoprirsi "cattivi", ed è l'unico pezzo reggae del disco - e "Star On The Rise" - che suona come la preghiera o il discorso tra sé e sé di un pugile che sta per salire di nuovo sul ring, e sa che c'è una stella che dopo anni di ombra sta per risorgere.
"Surrender" è fondamentalmente basata sul significato del racconto dell'akeda e sull'apparente perversione del fatto di arrendersi alla volontà di Dio.
"Confidence" è il secondo "intervallo" del disco e parla del rapporto di Matis con il suo vecchio "costume" da ebreo ortodosso: in particolare, l'autore si sofferma sulla riscoperta delle ragioni che lo avevano portato a essere un ebreo ortodosso e alla mancanza di fiducia in sé stessi che a volte ti porta ad accettare cose che non vorresti e non ad accettarti per come sei.
"Vow Of Silence" è un pezzo molto ritmato, un rap con un ritornello cantato in ebraico, in cui il cantante parla di tutte quelle situazioni nella Bibbia in cui gli "eroi" si sono comportati da "cattivi", disobbidendo a Dio; nel bridge il cantante si rivolge al figlio Shalom e lo sprona a vivere con fede e coraggio la propria religione.

I tre pezzi prima del finale formano un crescendo, o forse un diminuendo, fino a portarci con l'immaginazione al limite della depressione e della mancanza di senso.
"Obstacles" riapre una vecchia ferita: è un pezzo datato ma mai pubblicato prima, eseguito spesso dal vivo ancora quando Matisyahu aveva ancora la barba, ma dal significato perfetto per l'album.
"Hard Way" è la ferita che sanguina e parla dell'imparare solo dagli errori e pone una domanda a cui non dà risposta: "chi ti renderà felice, quando sei tu il tuo peggior nemico?".
"Sick for so long" è il pezzo più struggente dell'album, ben lungi dall'essere mieloso: Matisyahu canta con il cuore in mano di come ci si sente ad avere una ferita che non guarisce e di come l'unico modo per guarirla è tornare in sé stessi e accettare quel dolore senza scappare via. Il brano parla anche di occhi che brillano, di "padri e figlie come fuoco e acqua" e di problemi cardiaci: è probabile il riferimento non esplicito alla piccola figlia che Matisyahu ha avuto con una vecchia fiamma e nata appunto con un problema cardiaco.
Dopo una coda psichedelica ed ebbra che sfuma nell'oblio, l'ultimo brano "Akeda" si apre su semplici pennate di chitarra classica, a scandire il tempo e ad esaltare le parole che narrano la storia dell'akeda dal punto di vista dell'angelo che parlò ad Abramo e riprendono il ritornello di ayeka.

La morale del disco è semplice solo a parole, ma non nei fatti: la morte non ha mai subito un senso ai nostri occhi, per sopportare la morte dell'altro ci vuole amore e per sopportare il proprio dolore ci vuole fede.
In questi termini può sembrare un disco democristiano (o demoebreo), ma è in realtà un disco molto psicologico e concreto, come il racconto di un amico che ti parla della propria dipendenza da una droga e di come ne stia uscendo passando per l'inferno.

Personalmente lo reputo uno dei migliori dischi che io abbia mai acquistato e ascoltato, per il modo in cui i testi, i suoni e le melodie sembrano riprodurre quello che vivo dentro.
Sicuramente il miglior disco di Matisyahu sotto ogni punto di vista, anche se poco pop.

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