Come ogni evento che si rispetti anche il concerto dei Matmos a Venezia ha le sue prevendite e, per fortuna, noi avevamo il posto assicurato da un pezzo perché fuori dal teatro compariva un "SOLD OUT" che non prometteva nulla di buono.
Dopo la classica capatina al localino di turno tipica di noi veneti, ci lanciamo alla conquista di quelli che saranno i nostri posti per l'ora e mezza a seguire, temendo di non riuscire a vedere o, peggio, di sentire male.
La prima sorpresa è che il Teatro Fondamenta Nuove non è poi così grande, anzi è piccolo, ma che dico: è piccolissimo. I posti a sedere saranno stati circa trecento e tutti rigorosamente sedie disposte in file lunghissime, così ogni persona riesce a vedere e a sentire perfettamente.
Come entriamo sul palco ci sono già tre musicisti, che poi scopriremo componenti del gruppo spalla e d'accompagnamento dei Matmos. Mentre la gente prende posizione loro continuano a suonare lievemente, soffusamente, per ingannare l'attesa.
Ma ci siamo, sono le otto in punto, buio e silenzio in sala. "Buona sera a tutti, noi siamo i Dick Slessig..." così si presentano i tre personaggi che si trovano sul palco, e iniziano a suonare. Loro suonavano e noi viaggiavamo. Loro suonavano e noi sognavamo. Loro suonavano e noi ci perdevamo in un divagare psichedelico che sembrava senza fine. Chitarra, basso e batteria ci stordiscono e ci lasciano soli con noi stessi per ventitrè brevissimi minuti di schizofrenia armonica...
Ormai alle nove e mezza ecco che finalmente, direttamente dalla platea, il duo americano sale sul palco. Ad accompagnarli, come accennavo, il chitarrista Mark Lightcap e il batterista Steve Goodfriend che già hanno mostrato tutta la loro bravura.
Lo spettacolo inizia: "Grazie per essere qui stasera".
Martin si avvicina a una bacinella d'acqua ripresa da una telecamera ed cominica ad utilizzare una cannuccia soffiando prima forte, poi piano, poi aspirando, ancora soffiando, immerge la mano in acqua e gioca con un campanellino che si trova sul fondo. Lo scuote, lo sbatte sulla bacinella, lo fa cadere in acqua, ancora, riprende la cannuccia e il tutto è trasmesso sul gigantesco schermo alle sue spalle direttamente dalla telecamera. Drew nel frattempo si diletta creando un'atmosfera glaciale grazie ad effetti, rumori e trilli fuori dal normale, accompagnando tuttavia il ritmo imposto dal suo compagno. Cambia la canzone, cambia l'atmosfera, cambia il filmato.
"Di solito utilizzo questo spazio per dirvi quanto odio il mio paese e il mio presidente" ci dice Martin, tripudio generale, ma noi non avevamo dubbi sulle loro idee.
Il batterista inizia a suonare la grancassa con le bacchette, ma il suono è coperto dai battiti e dalle drums elettroniche; Martin inizia a suonare quello strano strumento che compare così spesso nel loro ultimo album e che ha un suono tra la fisarmonica e la cornamusa. Si scusa se non potremmo vederlo suonare perché coperto dai mixer, non c'è problema.
Le canzoni, quasi tutte tratte da "The Civil War", si alternano splendidamente, l'elettronica sobbalza di tanto in tanto in spazi sperimentali e illusori, dove la formula canzone non esiste più e la musica diventa la stessa performance. Finiscono presto, troppo presto, ma in realtà sono già passati settantacinque minuti, volati, corsi dietro ai due musicisti.
Gli applausi continuano però a scrosciare da ogni spettatore e dopo pochissimo ecco che i quattro musicisti rientrano sul palco.
"È la prima volta che qualcuno ci chiede il bis..." e noi fingiamo di credergli soddisfatti. Un'ultima canzone e poi non c'è applauso che tenga, si devono riposare, in fondo venti minuti dopo avrebbero ricominciato tutto da capo.
Non propriamente un concerto quindi, ma uno spettacolo teatrale diretto magistralmente da quei due pazzi americani; e se per caso qualcuno dovesse dirvi "mah, non mi son piaciuti tanto, troppo casino e troppo complicati" date retta a me e non ascoltatelo... in fondo non tutti riescono a comprendere l'arte.
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