Brescia, tra fine Marzo e i primi di Aprile, 2020.

Li ricordo bene quei giorni precisi e ripetitivi, limpidi nel cielo, caldi. Dei lunghi giorni della marmotta, in attesa, sospesi tra un tg e un articolo sul web, tra una sveglia, una colazione, delle ore stanche al pc, un pranzo, una digestione con Matt Elliott, un flaccido pomeriggio, una doccia, una cena e il sonno finalmente.

Matt mi veniva a trovare sul terrazzo, due metri quadrati di libertà che valeva oro. Steso come un contorsionista vicino a mia moglie, mi rifugiavo nella sua classica malinconia, nella sua fatale drammaticità, nel suo minimalismo sonoro. Le cuffiette mi isolavano ulteriormente, erano un alto recinto alle mie inquietudini e ai miei disagi. Mi cullavo amaro nella sua chitarra leggera e pizzicata, cercavo conforto nella carezza della sua voce. Il suo triste folk era la colonna sonora perfetta della decadenza del momento, il suo umore continuo e soffuso e le poche variazioni (qua e là un violoncello, dei tocchi leggeri di piano) erano cantilene neniose per chi avesse desiderato il riposo.

Tanti erano gli addii, tanti i saluti commossi che rimanevano repressi in gola. Tante erano le emozioni che scoppiavano isolate come leggere bolle di sapone che una fisica violenta impediva loro il minimo contatto. C’era solo il telefono, una chiamata che doveva arrivare, uno squillo che sarebbe diventato un tuono così violento da scatenare un nubifragio a ciel sereno. Matt mi diceva che il peggio sarebbe passato, che la pace arriva sempre dopo la tempesta, mi dava un briciolo di ottimismo, un inutile consiglio. Il clima umido della cover era comunque presagio di altri tempi grigi e indecifrabili. E lui lo sapeva, già immaginava tutto quello che sarebbe successo.

Il cellulare alla fine squillò, una campana moderna che suonava a morte. Il sole continuava a splendere e faceva sempre più caldo. E io volevo solo il freddo perché ci fosse qualcuno che mi riscaldasse con un abbraccio.

Quello di Matt fu un lunghissimo abbraccio, tragico ma sincero.

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