"Howling Songs” (a parere di chi scrive uno degli album più intensi e significativi dell'anno 2008) conclude splendidamente una trilogia di opere inaugurata con “Drinking Songs” e proseguita con “Failing Songs”, entrambi episodi decisamente validi.
La carriera solista dell'ex membro dei Third Eye Foundation è ormai un percorso maturo e ricco di consapevolezza: abbandonata la veste elettronica/avant-noise con cui l'artista si era creato una visibilità nel secondo scorcio degli anni novanta, il Matt Elliott solista si ammanta dei foschi colori di un aspro, fumoso e dolente cantautorato, che trae origini dal Cohen più impegnato per approdare ai suoni ruvidi e cacofonici del terzo millennio.
La ricerca lirica e sonora di Elliott è indubbiamente da annoverare fra i rigoli più interessanti del cantautorato contemporaneo: specchio di una gioventù sbandata e disillusa (disperata, potremmo aggiungere), la sua musica ricalca la confusione e il disorientamento innanzi alla impazzita ed inquietante epoca che stiamo vivendo.
Il cantautorato apocalittico del Nostro oscilla così con disinvolta ed agonizzante mutevolezza fra arpeggi densi di una mestizia tutta spagnoleggiante (una mestizia che nasce ovviamente dall'inquieto peregrinare dell'artista, originario di Bristol, poi “scappato” in Francia, ed infine stanziatosi in Spagna, accolta come sua nuova patria) e laceranti esplosioni di un'elettricità debitrice del post-rock dei nostri giorni, ed in particolare di quello patrocinato dagli artisti dell'etichetta Constellation (Silver Mt. Zion in primis).
La voce greve e raschiante, orribilmente bassa e sconsolata, pari a quella di un Mark Lanegan preso a bastonate e privato delle sue irrinunciabili sigarette, si sfalda in un contesto sonoro che richiama vagamente il folk visionario del Nick Cave degli anni novanta, anche se in verità l'identità di Elliott è solida e ben definita, seppur frutto di un paradosso: la sua musica è infatti densa di una forte consapevolezza dei mezzi espressivi a disposizione e veicolatrice di un messaggio lirico chiaro ed irriverente; ma l'impressione che si ha ascoltando queste nove estenuanti ballate è quella di un Elliott naufrago ed errante senza meta in un mare infinito, in una notte senza stelle che è la post-modernità, inafferrabile, confusa, irrimediabilmente allo sfascio.
Tutto è allo sfascio, ogni speranza è perduta, l'unica via è la fuga disperata nella propria mente. L'errare metafisico della zattera di Elliott sembra subire le incontrollabili mutazioni di una meteorologia imprevedibile e repentinamente assassina. Il mare è una tavola piatta, e la musica di Elliott è un folk mediterraneo riscaldato da eleganti arrangiamenti di archi, dolci a tratti, irrequieti in altri; il suo rantolo è un sospiro, un lamento roco e fantasmatico che si perde, libero ed incontrollato, nel vuoto della desolazione di un oceano vasto e silente. Il mare si fa minaccioso e poi burrascoso, ed ecco che da acustico il folk di Elliott si fa elettrico e di colpo mutato in una sarabanda chitarristica dal passo sghembo e “giostresco”, come il vento freddo che sferza sul viso e sulle membra, come i flutti gelidi delle onde che scardinano gli assi della sua imbarcazione. Con la medesima velocità con cui si era originata, la burrasca torna a mitigarsi in un mare bolso e malato, ed ecco che la musica di Elliott si converte nuovamente nella fragile e precaria canzone d'autore di un naufrago a mollo che si aggrappa esausto ai pochi legni rimasti intorno a sé.
Le Canzoni Ululanti sono indubbiamente la prosecuzione logica e fisiologica del discorso intrapreso con i due album che le hanno precedute: il senso di vuoto permane, ma laddove vi era l'abbandono ad una inevitabile condizione di sconfitta che precludeva ogni possibile strategia d'uscita, adesso prevale l'impeto, lo sfogo incontrollabile di un'umanità reietta, di una vitalità repressa che invoca piena espressione.
Paradigmatici gli undici minuti di “The Kubler-Ross Model”, sconvolgente brano d'apertura, che si iscrive di diritto entro i ranghi del cantautorato contemporaneo più alto e nobile: come suggerito dal titolo (che richiama direttamente lo strumento analitico approntato della psichiatra svizzera Elisabeth Kubler Ross per spiegare le dinamiche mentali del paziente a cui è stato diagnosticata una malattia terminale), il brano ripercorre, attraverso i suoi repentini cambi umorali, le cinque fasi previste dal modello stesso (negazione, rabbia, patteggiamento, depressione ed accettazione), amara e disincantata metafora di una sindrome individuale e sociale che ammorba un'intera generazione (la nostra) che naviga a vista in una complessità sociale che non dà certezze, né restituisce la possibilità di costruire un progetto di vita; una generazione che soffre (prima inconsciamente, poi con maggiore consapevolezza) la fine delle illusioni, la fine della speranza; una speranza che si trasforma infine in lucido sarcasmo e disincantata ironia; un'ironia non priva di profonde lacerazioni esistenziali.
Le ballate che seguiranno non sono che l'appendice di un brano monumentale che fagocita disperazione per trasformarla in agghiacciante accettazione dell'esistente. Ma cosa potrà mai conseguirne se non amarezza, rassegnazione, una vitalità a cui sono state decurtate le ali? La visione delle cose di Elliott è cruda, il suo modo di procedere sgangherato, il suo canto sembra volersi librare in aria per poi rimanere schiacciato nella convinzione che quel che rimane da fare è portare stancamente avanti la propria esistenza giorno dopo giorno, distaccandosi freddamente dalle pulsioni vitali nell'attesa di un tragico e terribile epilogo. Una fuga intellettuale che si muove ora con le sembianze di una ipnotica ballata acustica, ora con vigorosi crescendo rumoristici, di cui la tile-track ne è la perfetta sintesi, dolente e plateale canto della Fine: una Fine che si tinge di roboante elettricità e di sgraziati cori di truci monaci cowboy erranti nella polvere del deserto.
Nomade ed ululante, Matt Elliott tratteggia così i contorni di un processo di degenerazione, mentale e fisica, che la nostra umanità sta vivendo. Vale la pena ritagliarsi un po' di tempo e dare attento ascolto alla voce di uno degli artisti più lucidi e penetranti dei nostri giorni. Chissà se la nostra già ampiamente triste de-visione della realtà non ne trarrà qualche conforto...
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