Il suono del dolore malinconico che dà conforto e disperazione al contempo.

E' questo il tema principale dell'arte di Matt Elliott. I tenebrosi effluvi di pianoforte, le voci lontane e aliene di fantasmi che vagano senza pace, i motivi di polverosi carillon che proseguono stanchi sino al termine della loro carica, il coro, ammaliante nella sua ineluttabilità, di marinai ubriachi su di una nave sperduta tra le onde dell'oceano... senza meta...

Le influenze mitteleuropee (la chitarra acustica della conclusiva "Forty Days") sono abbondanti e spesso colorate da arrangiamenti elettronici mai invadenti che puntano sempre all'esaltazione dell'atmosfera "dolcemente opprimente" di cui è imbevuto l'intero disco. Elemento caratterizzante dell'opera sono senz'altro gli inquieti bisbiglii registrati al contrario ("Let Us Break"), i quali, utilizzati con grande efficacia espressiva, si adagiano con estrema grazia sul tappeto sonoro.

Le sensazioni trasmesse dal patetismo di Elliott sono accostabili a quelle che può comunicare la colonna sonora di una consumata pellicola drammatica, vista attraverso i contorni indefiniti del sogno... una storia i cui personaggi perdono ciò che dava significato alla propria esistenza... e nel finale un affastellarsi di inerti e abuliche nubi va a coprire ciò che resta delle loro fiacche e logore vite...

Flebilmente la musica si trascina portando con sè un senso di tristezza e smarrimento, ma quasi familiare e rassicurante. Riesco ad intravedere gli echi di Wyatt (ad esempio la title-track) nell'insicuro approccio alla modulazione delle note... sublime nella sua innocente melodia anche la struttura di "Cotard's Syndrome" e suggestivo l'apice a mio avviso dell'intero album, "The Sinking Ship Song", il cui titolo dice tutto.

Sono gli spettri che tormentano i pensieri dell'artista i protagonisti di questi acquerelli, dipinti sotto il grigiore di un cielo arido e distante.

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