Qualche giorno fa, durante una delle mie innumerevoli scorribande nel mio negozio di cd preferito, mi è capitato tra le mani “Commitment” (moshi moshi records - 2003) di Matt Harding. Assunta la stessa pensosa espressione di Don Abbondio dinanzi al nome di Carneade, ho continuato ad osservare la copertina, avvertendo successivamente un’inspiegabile curiosità verso questo album.
A quel punto ho provato ad ascoltarlo e pochi minuti dopo era già in mio possesso in cambio di 18 euro sonanti. Ma non parlerei di una folgorazione, perché fin dal principio dell’ascolto ho maturato l’idea che “Commitment” fosse un disco carino, gradevole, ma nulla di più. Non un lavoro eccelso, né tanto meno uno di quelle opere che si stampano inesorabilmente nella mente per anni.

Perché prenderlo allora? Perché ho avuto l’impressione di avere tra le mani un disco capace di alleviare il peso una dura giornata e forse era quello di cui avevo bisogno in quel determinato momento. Fatto sta che adesso lo sto ascoltando da alcuni giorni e benché non abbia mutato il mio giudizio iniziale, devo dire che Matt Harding mi ha gradevolmente sorpreso per la sua capacità di fondere con naturalezza una musica acustica, low-fi, semplice e scarna con suoni elettronici e ritmiche minimali, elementari, essendo nel contempo melodico, malinconico e leggero.
Insomma, è un cantautore che ha incontrato l’elettronica e ha deciso di utilizzarla per fluidificare sonorità folk.

Sotto l’aspetto meramente vocale, dovendo fare un paragone non scomoderei Nick Drake come ho letto in rete in questi giorni. Anche se è difficile pensare che il nostro Matt non lo abbia ascoltato subendone l’influenza. D’altra parte, non posso averne la certezza, dato che la rete non offre molte notizie su questo musicista. Infatti, oltre la sua nazionalità britannica, il nome dell’etichetta che ha pubblicato il disco e il fatto che questo è il suo secondo album, non ho trovato nulla.

Poco importa. Badiamo alla musica allora. Tredici brani in tutto, di cui quattro strumentali. Fra questi ho trovato interessante quello di apertura (“What I Mean To Say), poiché mette in luce la voce sussurrata di Matt Harding, vero filo conduttore del disco. Il brano seguente, “Flint”, luminoso, abbastanza melodico e ritmato, vede prendere il sopravvento delle influenze elettroniche, comunque costanti in tutto l’album, con un'unica eccezione “Afternoons in December”, sviluppata solo con voce e chitarra.

Ascoltandolo con sempre maggiore attenzione, mi ha sorpreso il fatto che non riusciva ad annoiarmi. Pensavo che la sua voce bisbigliata e il suono a tratti indolente del disco mi avrebbero stancato in fretta. Invece, ho continuato ad ascoltarlo, continuamente, senza sosta e senza saltare mai una canzone, fatto del tutto inusuale per il sottoscritto. Mi sono addirittura dimenticato del telecomando e ho lasciato andare il disco dopo aver inserito “repeat all”. È chiaro, quindi, che non è certo un disco impegnativo, anzi è molto semplice e fa compagnia senza alcuno stress, però non conduce facilmente ad un inesorabile sbadiglio. Solo questo è un merito non da poco.

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