Questo è un Valhalla Rising che non ce l'ha fatta del tutto, ma per l'andazzo del cinema italiano è comunque un bel film, memorabile, a suo modo. Non eccelle perché non sceglie di percorrere una strada ben definita e alterna momenti rarefatti, misticheggianti, ad altri più banalmente epici, con tanto di duelli carichi di enfasi e musiche tonanti.
Se le parti più oscure convincono e sorprendono per la loro credibilità, le altre profumano di fragile emulazione, di cliché di genere, con scontri e ammazzamenti sempre molto schematici e ripetitivi. Rovere tiene particolarmente al concetto di film di genere e dopo Veloce come il vento, tenta un salto altrettanto alto. Le corse automobilistiche gli erano venute un po' meglio dei duelli con spade e asce, su questo non ci piove.
Il cuore de Il primo re è insozzato di fango, immerso nelle nebbie mistiche del Lazio di quasi tremila anni fa. Più l'ambiente è desolato e spoglio, più ne guadagnano in carisma personaggi come il Remo del grandioso Alessandro Borghi (o a suo tempo, Mads Mikkelsen nelle terre vichinghe). Per questo, il film fa breccia soprattutto nella prima metà, quando una manciata di ex schiavi si trova a dover sopravvivere nelle paludi, senza cibo, con un Romolo moribondo e creduto maledetto per aver toccato la vestale. Lì la forza di Remo sembra poter piegare il mondo, e si esprime in episodi d'una ferocia squisita, libera da ogni vincolo, vitale.
Poi però la ferocia diventa più politica, e la narrazione perde un po' il suo tocco magico, per doversi ricongiungere con il mito della fondazione di Roma e del fratricidio. La bellezza viene un po' infiacchita, anche per la scelta secondo me inspiegabile di far parlare i personaggi in proto-latino. I nostri bofonchiano una lingua incomprensibile, che rende solo meno immediata la ricezione da parte dello spettatore, soprattutto quando (purtroppo) si inizia a parlare in modo più fitto.
Non ha alcun senso farli esprimere in una lingua che nessuno al mondo parla, è un bastone fra le ruote alla narrazione senza alcun vantaggio collaterale. L'accuratezza storica è puramente fine a se stessa (è un po' una posa, diciamolo), perché il realismo del linguaggio (tutto da dimostrare, dato che la lingua del film è stata “ricreata” da studiosi) ha come grave contrappeso un totale non realismo recitativo: si costringono gli attori a parlare una lingua che nessuno di loro parla, e gli spettatori ad ascoltare frasi che nessuno di loro può capire.
Anche il finale non mi ha convinto, soprattutto per le tempistiche affrettate con cui Romolo si riprende dalla quasi-morte e va poi a uccidere un fratello che sprizzava vigore da tutti i pori. Insomma, Rovere era palesemente innamorato della prima parte, ma a una certa ha dovuto tirare le somme e si percepisce proprio la fretta nel chiudere, senza lasciare grandi tracce di significato.
Ma questo è normale, perché si tratta di un lavoro di estetica, di superficie (nel senso migliore del termine) e non tanto una questione di contenuti. Sono Romolo e Remo, ma potevano essere altri due eroi qualsiasi. Al regista importava principalmente di fare il suo film selvaggio, primitivo, feroce, per un'infatuazione evidente con alcuni grandi esempi stranieri. L'uso della luce naturale è un altro segno di devozione non trascurabile.
6.5/10
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