I telefilm mi hanno fatto sempre cagare, mi annoiano a morire, sceneggiature dilatatissime e attorucoli mediocri, oltre a storyline che si protraggono per stagioni stagioni, riscaldano un brodo già strabusato da loro stessi.
Mad Men me l’hanno consigliato all’università solo perché trattava l’evoluzione e le dinamiche all’interno di un’agenzia pubblicitaria, che un po’ l’ambito che studio io. Un po’ (molto ) riluttantemente, mi aggingo a guardarlo, un po’ per capire nel campo come funzionano le cose e la dialettiche “back office” di un settore che mai troppi ha appassionato – nonostante il relativo successo, la serie è seguita un quinto rispetto Lost- un po’ per l’ambientazione US sixties, che non si può non adorare.
L’impatto è stato radicalmente speculare, il mondo pubblicitario è usato come pretesto, cornice in cui si dirama la lunga e burrascosa evoluzione socio-culturale della golden age che vede protagonisti i primi yuppies della new-york d’affari. Madison Avenue è il luogo dove più si fomentano i valori della cattiva America che permeano con i loro riverberi nella civiltà occidentale di oggidì. Razzismo, machismo, alcool a fiumi, segretarie troie e sigarette in quantità industriale, l’agenzia e i suoi dipendenti dal carattere volubile e irritante, contratti multimilionari con aziende (reali) inclini sempre alla ricerca utilità marginale maggiore che può conferire uno slogan o un layout di impatto, prevaricazione dell’ immagine rispetto alla sostanza…
Nelle 4 stagioni- finora- se da una parte si vive una involuzione autodistruttiva (o indotta dalle circostanze) di tutti i nostri machos così duri e cinici al confronto con le ideologie pre ’68, gli eccessi e le difficoltà che comportano le loro manie compulsive (specie di Don e il Capo); dall’altra è un autentico riquadro di una società in rapporto agli stravolgimenti mediatici e politici del decennio: dualismo Kennedy- johnson, Cuba, Morte Kennedy, il vietnam, gli hippie- questi ultimi, visti da una prospettiva coerente all’aura estetico-borghese- oscurantista del contesto: rompicoglioni, nullafacenti, patetici, senza ragione di dialettica costruttiva con la Manhatthan dei Capitali.
Citazioni di Bernbach, Ogivily, Gossage; le strategie di campagna che si evolvono dal considerare il consumatore medio manipolato dai media fino alla targetizzazione, le ricerche di mercato e il brain storming non potranno non affascinare gli amanti di marketing e pubblicità.
I personaggi sono caratterizzati egregiamente, aneddoti, eventi e situazioni sembrano evolversi con un metabolismo quasi naturale, seppur trattando molte storyline parallele cui però si fà poca fatica a stare dietro; plot sempre incisivo e con notevoli spunti di argomentazione e riflessione anche se con rammarichevoli e spesso evidenti forzature di trama( seppur dissipate da un’ottima sceneggiatura che non cerca mai la retorica d’effetto, ma spesso informale e con alcuni tocchi di classe).
Ah, la rece la sto rileggendo ora ma fa schifo al cesso, se vi fidate dei miei gusti bene, se conoscete il regista Mattew Weiner (quello dei Soprano) ancora meglio, almeno avete la garanzia che è roba bbona.
Da guardare in lingua originale.
Cià.
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