Nell'anatomia umana, per cremastere si intende un muscolo scheletrico che ricopre i testicoli. Presente nel feto ancora prima del suo pieno sviluppo e prima ancora che il sesso dell'individuo si formi, il cremastere è pienamente sviluppato nell'uomo ma comunque presente (in piccola percentuale) nella donna. La sua funzione è quella di sollevare o abbassare lo scroto secondo fattori quali la temperatura per favorire la spermatogenesi.

Il lavoro "Cremaster" di Matthew Barney ruota attorno a questo misconosciuto muscolo, eleggendolo come una saga epica del testicolo genitale, priva però di riferimenti sessuali. L'obiettivo di questa saga è quella, appunto, di stimolare il cremastere attraverso immagine di grande impatto visuale. Non c'è allusione sessuale nel suo lavoro: l'approccio è chirurgico, freddo e distaccato, trattando il simbolo genitale come elemento organico e biologico.

La saga si suddivide in cinque capitoli e ha dato un punto di svolta nel campo della videoarte, bistrattata da molti critici e amanti del cinema, vista come un figlio bastardo del racconto audiovisivo, incapace veramente di solcare la storia. Il problema di molta videoarte, oltre ad una ricerca criptica e "paraculo" del simbolo, è quella di rimanere incatenata al proprio tempo storico invecchiando precocemente: oggi i film fluxus hanno perso il loro impatto scioccante. Se c'è un lavoro videoartistico in grado di reggere lo scorrere degli anni è proprio il lavoro di Barney: attuale, allegorico, perennemente affascinante nel suo flusso incontrollato di immagini.

I cinque capitoli della saga non sono usciti in ordine numerico, ma in ordine apparentemente casuale: "Cremaster 4" (1994), "Cremaster 1" (1995), "Cremaster 5" (1997), "Cremaster 2" (1999) e "Cremaster 3" (2002). Notiamo, invece, come l'ordine non sia affatto frutto di pretenziosità, quanto di una ricerca ad un ciclo armonico, con il cinque in mezzo a due coppie di numeri che, sommati, portano all'ipotetico capitolo conclusivo del viaggio.

Se non si va alla ricerca di comunicati, di sinossi presentate dallo stesso Barney e di chiavi di lettura, è difficile dare un senso a ciò che avviene sul nostro schermo. Più semplice (e sincero) è lasciarsi sopraffare da queste non-storie, da questi incubi di design, da questi sogni ad occhi aperti. Subirli, restarne incantati e pensarci ancora su. La forza di Barney sta nella capacità di incatenare lo spettatore davanti all'indecifrabile, senza mai annoiarlo, anzi, stimolandolo e seducendolo.

Una videoarte, in verità, molto vicina al cinema, dove il lavoro è, in verità, ragionato e mai lasciato al caso. Un'opera barocca, dove gli attori esistono in quanto presenze e non in quanto espressione, dove è l'immagine che deve raccontare ogni cosa, muovendosi tra riferimenti di vario tipo, alti e bassi, viaggiando tra simbologie massoniche e di folklore, arte, fotografia, moda, western, serial killers, tragedie di stampo greco, musical di stampo hollywoodiano classico, storie d'amore, magia (la presenza della figura di Houdini) e tradizione (la figura del satiro); unendo i film con leitmotiv enigmatici inquietanti ed indecifrabili come la vaselina, il petrolio e, in generale, il colore bianco, colore di purezza e allo stesso tempo di morte; colore in grado di unire opposti.

Difficile riassumere in poche righe la complessità del progetto quanto inevitabile è, invece, affermare la carica rivoluzionaria che ha portato in campo artistico, diventando immediatamente evento mediatico, gettando Matthew Barney nell'olimpo dei geni creativi contemporanei.

Per quanto criptico, "Cremaster" è un viaggio da intraprendere: un'esplosione continua di riferimenti visivi di innegabile valore, di suggestioni agli antipodi e di narrazioni unite dalla continua lotta per un dominio (identificabile dal punto di vista anatomico come la lotta di due gameti con l'obiettivo dell'equilibrio ormonale), uno scontro tra forze naturali e artificiali, immerse in un ambiente strettamente ermafrodita, armonia utopica del maschile e del femminile (da qui, il cremastere, un muscolo strettamente maschile  in grado, però, di unire il femminile).

Una, anzi, cinque opere selvagge e allo stesso tempo tremendamente eleganti (per un totale di quasi sette ore di visione), davanti alle quali bisogna lasciarsi andare. Lasciarsi immergere nell'abisso per riemergere poi (a fatica) solo in seguito.

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