Vorrei iniziare la stesura di questo saggio, venendo incontro ai suggerimenti di alcuni cortesi utenti che hanno variamente stigmatizzato l'eccessiva impersonalità dei miei scritti e la freddezza della loro imparzialità, con un aneddoto personale che, certamente, può aiutare tutti ad inquadrare la tematica di cui intendo occuparmi; come del resto facevano già i classici, da Tito Livio a Tacito o Polibio.

Pochi giorni fa, partecipando al matrimonio di un ex collega, vidi scorrazzare allegro per il patio del ristorante in cui si teneva il ricevimento un bambino, che presto riconobbi, per la manifesta simiglianza, come il figlio di una cara amica della coppia unitasi in coniugio in quelle stesse ore: messomi a dialogare con la madre, presto accorsa, intesi che non aveva marito e che versava nella scomoda condizione di ragazza madre.

Allorché, forse cogliendo un'ombra di interrogativa malinconia nel mio sguardo, la stessa ebbe a dirmi "Sai, è stato un errore. Ma il più bell'errore della mia vita".

E fu così che, tornando dopo qualche minuto al tavolo di nozze, non potei che postulare l'eventualità che la mia conoscente avesse, illo tempore, esercitato il suo diritto all'aborto, pur postosi come un alternativa possibile: correzione di un errore, certo; ma anche nessun bambino allegro, e nessuna mamma felice nonostante l'evidente dramma della maternità vissuta senza il saldo appoggio di un compagno educato ai valori dell'etica e della responsabilità che, memore dell'ambiente in cui si celebrava il matrimonio, mi ricordavano i miei trascorsi formativi e professionali.

Nei giorni successivi ho così inteso approfondire la tematica alla luce del libro che analizzerò nei successivi paragrafi, auspicando un attenta considerazione del problema da parte dei cortesi utenti, e, soprattutto, di coloro che sono soliti commentare questi scritti solamente a fronte della lettura del nome del recensore e del titolo del libro.

Il libro parte da una considerazione a mio sommesso avviso del tutto condivisibile, che, avvertendo quella frangia di lettori magari adusa al peggior maschilismo, non va messa in discussione: alludo al diritto fondamentale della donna ad una maternità consapevole, nella quale deve necessariamente ritenersi ricompresa la facoltà di interrompere la gravidanza qualora le condizioni morali, psicologiche, economiche, sociali o comunque le convinzioni soggettive della donna rendano intollerabile quest'esperienza, a danno proprio ed, indirettamente, della sua stessa futura prole.

Pensiamo alla donna afflitta da disturbi della personalità, oppure ancora alla donna rimasta incinta per violenze sessuali, o ancora nell'ambito di un rapporto occasionale o di una relazione insoddisfacente e destinata a concludersi, oppure ancora nell'ambito di una relazione extramaritale o con un cittadino di altra religione o provenienza geografica; ma anche alla donna in difficili condizioni lavorative, vuoi per la carenza di lavoro, vuoi al contrario per un eccesso di impegno lavorativo, oppure alla madre di una prole già numerosa che non sosterrebbe la marginale crescita della propria famiglia.

Si tratta di ipotesi che andrei a separare da quelle di c.d. aborto terapeutico, concetto più ristretto che fa riferimento ai rischi di salute della donna nell'ambito della prosecuzione della gravidanza (pensiamo a tragici fatti messi in luce da recenti editoriali) oppure ancora alle gravissime malformazioni del nascituro, in cui, di fatto, non sussiste autentica scelta di abortire, ma una sorta di tragica necessità legata all'archetipico motto del "mors tua, vita mea", intesa sia come possibilità di vivere, sia come possibilità di far vivere.

Orbene, proprio muovendo da questa concezione personalistica e liberale della femminilità e della cittadinanza, la facoltà di abortire può essere rettamente intesa, alla Berlin, come libertà negativa di maternità: libertà della donna "dalla" maternità, libertà dunque di non essere madre laddove l'autonomia della persona non ne identifichi ragioni e presupposti.

Inquadrati così i termini della questione - come del resto mi sembra fare anche l'autore del libro in esame - si evince con tutta chiarezza come il nostro Stato abbia rettamente inteso, fin dagli anni '70, riconoscere la facoltà di aborto come indispensabile e lecito corredo della libertà della donna.

Il punto non è, come pur da qualche parte si sostiene, ed in parte sostenni prima della lettura di questo libro in altro saggio del dicembre scorso dedicato alla libertà di assumere sostanze stupefacenti, quello di una rinuncia preventiva dello Stato a punire una condotta teoricamente contraria all'interesse collettivo, né quello di una sorta di resa dello Stato dianzi alla incontrollabilità sociale del fenomeno abortivo, caratterizzato, soprattutto anteriormente all'introduzione della legge sull'interruzione volontaria della gravidanza, dal ricorso a tecniche improprie di intervento ad opera delle famigerate "mammane".

Fenomeni, questi, che pur certamente rilevano, ma che non possono essere invocati a legittimazione della facoltà di aborto: se non altro perché essi non giustificherebbero l'esercizio di questa facoltà con l'intangibile libertà della donna in quanto individuo dotato di una propria ragione, ma terrebbero ferma la subordinazione della donna ai valori tradizionali del sistema, "concedendole" in un certo senso la possibilità pratica di abortire senza essere punita. E mi sembra lampante, anche agli occhi degli utenti meno propensi a pesare l'uso delle parole, la differenza che passa fra libertà e concessione.

Esaurita la prospettiva, e riconosciuta la facoltà di abortire, separando ovviamente ogni giudizio sul fenomeno da valutazioni di ordine morale o religioso, il discorso potrebbe concludersi.

Ma sarebbe una conclusione certamente inappagante, come in parte inappagante è stata la lettura di questo libro, e poco rispettosa, da parte mia, dell'intelligenza degli stessi lettori di questo saggio.

Se è pacifico il diritto di abortire, è altrettanto pacifico osservare come questo diritto debba essere utilizzato dalle donne in maniera consapevole, nel rispetto dei canoni di responsabilità che devono necessariamente corrispondere all'esercizio di una libertà come quella di interruzione della gravidanza.

Per dirla con parole accessibili anche all'ormai nota utenza "media" del sito: una volta riconosciuto il diritto occorre necessariamente evitare che esso trasmodi in un abuso di diritto, ovvero in un suo utilizzo arbitrario e contrario alla stessa ragione d'essere della libertà attribuita: come ad esempio già avviene, giusto per semplificare, con riferimento al diritto del padre di educare la prole, che però non può trasmodare in abuso dei mezzi di correzione; o al diritto/dovere delle Forze dell'Ordine di compiere indagini, ispezioni, controlli, interrogatori senza tuttavia superare i limiti di un proporzionato uso del mezzo rispetto agli scopi.

Diviene allora essenziale comprendere in cosa consista l'abuso del diritto di aborto, al quale un sistema liberale e democratico dovrebbe necessariamente opporsi.

A mio umile avviso esso concerne, innanzitutto, il problema del terzo escluso avente diritto sul nascituro se non identico, quantomeno analogo a quello della madre, ovvero al potenziale padre del bambino, che, laddove conosciuto o conoscibile, dovrebbe essere messo nelle condizioni di partecipare adeguatamente alle scelte della madre, esprimendo sull'esercizio del diritto di aborto il proprio diretto avviso.

Ciò con conseguenze importanti nel caso, spesso tipico, in cui la donna va ad abortire di nascosto, ovvero all'insaputa del padre del figlio che vede così amputato un proprio diritto naturale alla paternità cosciente e consapevole.

Sarebbe allora opportuno che il Parlamento o i giudici riconoscessero un diritto al risarcimento del danno (o all'indennizzo) a carico della madre. Questo diritto potrebbe essere all'occorrenza esteso anche ad altri terzi danneggiati, come, soprattutto, i nonni ed i parenti stretti del bambino che vedano compromessi i loro diritti di relazione rispetto al nipote mancato, o patiscano dei danni affettivi od esistenziali dalla scelta della donna.

Sotto altro profilo, l'abuso del diritto di aborto corre sotterraneo nelle motivazioni interiori con cui la donna ricorre ad esso, talvolta sulla base di scelte repentine di cui potrebbe anche pentirsi: orbene, un conto è che il diritto venga, come è, riconosciuto a fronte di circostanze atipiche, ma comunque tipizzabili sulla base del buon senso; altra cosa è che la decisione venga affidata ad una donna, che, presa magari alla sprovvista da una situazione di obiettiva difficoltà come la maternità, non sia in grado di attribuire l'esatto significato di quanto va facendo, per incorrere magari in una scelta fallace. Non parliamo poi dei casi in cui l'aborto venga esercitato da teen-ager (e per teen-ager intendo quelle dei tempi in cui viviamo, cresciute al di fuori di nuclei familiari e valori stabili).

Penso che un buon rimedio possa essere, in questo caso, quello di rafforzare l'intervento dei consultori o delle associazioni di volontariato a difesa e tutela della vita e dell'infanzia, imponendo la loro consultazione obbligatoria, in maniera tale da poter guidare la donna nella propria scelta, anche mediante un sostegno finanziario nel caso in cui accetti di portare a termine la gravidanza e contribuisca, in quanto madre, a dare inizio ad una nuova vita: il che, nella maggioranza quasi assoluta dei casi, è sempre una bella notizia. Anche in questo caso, l'omessa consultazione di queste associazioni potrebbe essere punita con il pagamento di somme di danaro, da devolvere ovviamente in beneficenza.

In conclusione: l'aborto è di certo un diritto, ma esercitare un diritto implica responsabilità, consapevolezza, rispetto per se stessi, per gli altri, e per l'imperativo categorico kantiano per cui ogni scelta individuale deve essere universabilizzabile Ed in questo senso occorre andare, anche a tutela della donna, in quanto donna responsabile: solo se esercitato in maniera responsabile, e dunque come scelta estrema, alternativa ad un vero e proprio dramma esistenziale, paragonabile ad una malattia, l'aborto potrebbe essere legalemente ed anche moralmente accettabile.

Mi scuso per la lungaggine ma il tema lo imponeva di certo; invito i soliti noti a riflettere ancor più del solito prima di commentare, chiedendosi in particolare cosa penserebbero, dal Limbo, della propria madre se, invece di metterli al mondo, avesse preso una pillola abortiva...

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