Una volta, spalmato sul divano ed abbracciato stretto a mia moglie ascoltavo un disco, mi pare di De Gregori. Ad un certo punto lei si fece seria e disse: "Ecco questo è il classico disco maiale!" Niente di particolarmente erotico che avesse sollecitato l'aumento della nostra libido, ma semplicemente intendeva che della totalità dell'opera lei non avrebbe buttato via niente, come con il maiale appunto e come i nostri saggi nonni contadini ci hanno giudiziosamente insegnato. Mi piacque quella definizione e decisi di farla mia, ma anche di usarla con parsimonia per renderle il valore che merita e soprattutto che merita l'album che si fregia di tale appellativo. Uno dei miei pochi dischi maiale è dunque "Il Signore dei Gatti" di Mauro Pelosi cantautore romano con all'attivo quattro LP, disseminati tra il 1972 e il 1979, uno più bello dell'altro, ma che per motivi a me un pochino misteriosi non hanno venduto niente o quasi. Vero che lui era un "maledetto" cantautore che non apparteneva alla cerchia del Folkstudio romano e che non lanciava messaggi politicizzati, parlava intimamente di condizioni personali , spesso condivisibili, quasi sempre "borderline", ma noi eravamo pregni di desiderio di conoscenza e di divulgazione di ciò che, diverso, avrebbe potuto affascinare, quindi proprio il pubblico perfetto nel decennio più ricettivo. Invece Mauro Pelosi, con leggerezza incredibile, riuscì a volare sopra a tutte le possibilità di un meritato riconoscimento per schiantarsi infine in un grottesco anonimato. "Il Signore dei Gatti" è l'ultimo suo album quello scritto forse con maggiore sincerità senza la convinzione di dover stupire ad ogni costo chi lo stava ascoltando, perchè probabilmente ormai disilluso a livello artistico, quello maggiormente curato musicalmente e nei testi. L'album in questione è decisamente il suo più cantautorale, nel senso stretto del termine, senza quelle venature "progressive" che ambiguamente avevano un pochino condizionato la sua appartenenza e sicuramente senza quella ricerca e sperimentazione dei suoi dischi precedenti. Un lavoro bucolico e decisamente ben riuscito. Dopo tanta sottrazione non ci resta tuttavia un lavoro minimalista, ma un'appagante vetrina di belle canzoni velate di atavica tristezza come nella magnifica "Laghi di città" metafora di difficili convivenze: "..quando la mia voglia di te si trasforma in uno sguardo col respiro tagliato e le intenzioni nella gola, quando le parole sono suoni che riempiono il cervello e non ti accorgi di niente, neanche che piove.." non sono certo parole banali, o come nel brano "Il Poeta" ricettacolo di illusioni portate avanti una vita intera: "...Le illusioni son vere a volte si toccano con le mani e una camera in affitto diventa un granaio. Sua madre ingiallita nell'album di famiglia, accanto alla radio, ricordava la guerra..." o come nel brano che da il titolo al disco curiosamente autobiografico per osmosi: "Ho sognato una finestra e fuori tanta gente che inseguiva un gatto, con i baffi d'argento e i denti d'opale, cercava me, non aveva più unghie per graffiare...": Un lavoro che emoziona ancora oggi e, proprio perchè non vincolato ad alcuna moda e ad alcun compromesso, risulta assolutamente attuale. Di questo lavoro, ve lo garantisco, non butterete via niente, nemmeno un brano, come il buono e docile maiale, se solo avrete la pazienza di ascoltarlo con la mente e con il cuore.
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