«i Mazapegul... sono una di quelle realtà completamente sconosciute che però sono i semi di musica del futuro»
«quello che volevamo fare noi era... mettere l’orecchio sul ventre delle sensibilità folk e disturbarle, farle in qualche modo impazzire...come succede alla maionese»
Immaginate una giornata in campagna, d’estate. La capanna di Crêuzä de Ma che si vede da lontano… e qualche persona anziana vicino a voi che snocciola, senza farci troppo caso, stralci di poesia rurale ed epica contadina. Tutto intorno, terra e polvere, tantissima polvere, quella che lava gli animi e definisce i sorrisi. “Controdanza” è né più né meno di una rivoluzione: una nuova, inconsapevole, nascita della musica italiana ora non più (solo) italiana. Diventiamo balcanici, mediterranei, mediorientali, saltiamo l’Oriente e andiamo giù fino al Sudamerica.
I Mazapegul erano questo e tanto altro: chi non li conosce si è perso il gruppo più importante della musica c.d. “alternativa” italiana nei tanto vituperati, mitizzati e controversi Novanta, e non ammetto repliche. Tanta è la portata della loro musica, tanti sono i riferimenti “alti” (a partire dal titolo), tanta la capacità di rielaborarli schiudendo porte mai nemmeno scorte prima.
Ma il Mazapegul, chi è? Per chi, come me, è estraneo alla cultura romagnola, viene in soccorso il bassista Valerio Corzani:
«Mazapegul è un folletto della tradizione romagnola, animaletto metà scimmia metà bambino, con un cappello in testa, che si aggira nelle campagne in certe notti e si infila nei letti delle donne, e vuole assolutamente dormire sul ventre delle donne».
Per analogia potrei azzardare allora che il Mazapegul è Dido di Domenico, il cantante che non sa cantare, il pazzo che balla con le bambole sul palco, quello che è stato scoperto da Massi Amadori – giovanissimo chitarrista che varrà chiamato a rimpiazzare un signore di cui parleremo tra poco – letteralmente dentro un fosso, una mattina presto giù nelle pianure della Romagna, tra una balera e un liscio dopo un’altra serata di quelle giuste. E da lì è nato tutto. Ce n’è abbastanza per farne un romanzo, e il protagonista non sfigurerebbe in un qualsiasi racconto di fantasia... Dido è un genio selvaggio, barbone arlecchino con le voglie di un re, come avrebbe intonato qualche anno dopo. È lui l’anima dei Mazapegul, perché è l’unico capace di dare vita alle parole di Valerio Corzani come nessun altro potrebbe mai fare, e infatti con lui moriranno anche i Mazapegul. Certo, non c’era solo Dido. Mirco Mariani e Valerio Corzani sono i due leader e gli ingranaggi fondamentali che concepiscono e strutturano il suono dei Mazapegul: il primo dietro le pelli e qualsiasi altro tipo di oggetto possa essere percosso per creare mondi reali e magici, il secondo dietro – è proprio il caso di dirlo – il suo enorme balalaika basso.
Dicevamo del disco. La partenza è affidata alla superba Chiedi alla polvere, di fantiana memoria, in cui subito vengono messe tutte le carte in tavola e… le cose in chiaro. L’atmosfera è tesa, la voce è affilata e consapevole, e tutt’intorno il gruppo “gira” impastando quello che sarà il timbro di tutto il disco: un esteso mélange di fiati (sax soprano e baritono, trombe, clarino e clarinetto basso) avvinghiato alle bordate poli-a-tonali di chitarra elettrica, il tutto appoggiato sulla fantasia percussiva di Mirco Mariani (che oltre alle tradizionali percussioni si diverte a battere, a discrezione, monete, conchiglie e ferraglia assortita). Acustico ed elettrico che fanno l’amore attraverso un lungo viaggio verso il Sudamerica. La base ritmica che sbertuccia a turno folk e reggae, sopra i quali si innestano i soli marcatamente blues dei fiati (prendete le stupende Sudore e Amore Lasco, l’unico brano che all’epoca ebbe un minimo di notorietà). Sopra tutto questo si staglia il timbro inquietante, ondeggiante mentre segue passi dub, dell’enorme balalaika basso di Valerio Corzani, che trova la sua ragione d’essere in quella ricerca timbrica di cui parlavamo sopra. Tromba d’aria è travolgente e irresistibile e richiama, nemmeno troppo alla lontana, i suoni dei contemporanei Mau Mau, con i quali peraltro lo stesso Corzani aveva avuto modo di lavorare ai tempi di “Sauta Rebel” e “Bass Paradis”. Tana e Controdanza, dove «la sala sbanda e non è più la stessa / e le chitarre che sono lì che spingono», sono invece omaggi nemmeno troppo nascosti al Paolo Conte più gentile e sognatore nei suoi immaginari viaggi transoceanici. Episodi come La lunga estate calda e Guru sono sospesi tra Tom Waits e Balcani. Gira che ti rigira siamo sempre lì: Paolo Conte, blues, jazz e liscio, Tom Waits con tutti i suoi mondi post-Swordfishtrombones, i Balcani, ed è un attimo arrivare a Capossela. È attraverso queste lenti che possiamo comprendere anche genialate oblique come L’Ira del Delfino o la palindromica Aim Angamor, in cui i Nostri arrivano a unire in un unico coro l’Armenia, la Sardegna e l’Arabia…
I più attenti si saranno accorti che c’è un anello che congiunge (quasi) tutti gli elementi qui sopra. Chi? Ma proprio lui, Marc Ribot, fine della suspance. Non credo che siano necessarie presentazioni.
Ora, com’è possibile dico io, che un gruppo di ragazzi poco più che ventenni, con un pedigree praticamente nullo aldifuori delle suddette balere romagnole, riescano ad avere come ospite nel loro disco di debutto un chitarrista che, butto lì, fino a quel momento aveva suonato tra gli altri con Waits, Lounge Lizards, Chuck Berry, Wilson Pickett e Caetano Veloso? La storia, incredibile a dirsi, è questa: Valerio e Mirco sono innamorati, che dico ossessionati da Tom Waits, e un giorno si decidono a spedire una cassettina (!) con i loro provini al sig. Ribot, sono pochi demo e sono gli unici che hanno, senza alcuna speranza, giusto per il gusto di dire – ma sì, ci abbiamo provato. Allegato alla cassetta, un bigliettino con il loro numero di telefono. Fatto sta che il sig. Ribot prende in mano la cornetta e risponde, e si complimenta pure, e chiede di suonare con loro. Risultato, oltre alle varie contusioni che Valerio e Mirco si saranno procurati capottandosi dalla sedia, è che Marc Ribot marchia a fuoco “Controdanza”, primo disco degli sconosciuti Mazapegul, AD 1996. Capossela è sveglio e lo punta tra un concerto e l’altro, gli basta poco tempo per corteggiarlo e farne uno dei suoi sodali più fedeli. Ma quando va in giro a raccontare la storiella che lui ha portato Marc Ribot in Italia, lasciategliela raccontare, tanto lo sa anche lui che è una cazzata.
La storia dei Mazapegul è in fondo tutta qui. Tutto finirà con un brutto incidente stradale, un’automobile dentro un fosso così come tutto era cominciato, e Dido che lascia questo mondo nello sconcerto di tutti. Due album fantastici (recuperate “Piccolo Canto Nomade”, più a fuoco di questo e anche più facilmente reperibile!) e i Mazapegul che se ne vanno senza fare troppo rumore. Mariani sarà poi coinvolto in diversi altri progetti, dai Daunbailò – i più attenti coglieranno il rimando – ai più contemporanei Saluti da Saturno ed Extraliscio. Mi permetto infine di suggerirvi la visione dello splendido “Sul Ventre Della Musica”, breve documentario di Stefano Bernardeschi sulla storia del gruppo: lo trovate agilmente su YouTube e da lì provengono gran parte delle citazioni per questo scritto.
E chiedilo
Chiedilo alla polvere
Crossover di fuliggine
Chiedi alla polvere, impara dalle cose
A non mollare se non sono concluse.
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