Si incazzarono tutti. Lo insultarono, ma mica a viso aperto. Piuttosto, come fanno i rapper: tra le rime dei loro dischi.
LL Cool J, Run DMC, Digital Underground, Ice Cube e compagnia cantante (pardon: rappante). Il primo, anni dopo, chiarì e si scusò. Diamogliene atto.
Questo e tanto altro ancora scatenò Stanley Kirk Burrell, più comodamente MC Hammer, dal 1991 più comodamente ancora Hammer. Che ‘MC’ ormai ce l’avevano tutti, pure il nostro Frankie Hi Nrg.
E già. Questo perché questi gangsta incazzati e incazzosi sradicavano l’umore dei loro lavori nei bassifondi, lo rielaboravano con talento certosino e le sputavano alla nicchia di fans in adorazione.
MC Hammer la pensò più facile. Senza scomodarsi troppo, dopo il successo inaspettato (non eclatante ma pur sempre foriero di quattrini e belle speranze) dell’album di debutto “Let’s Get It Started” (preannunciato dalla prima incarnazione, l’autoprodotto “Feel My Power” ndr) si barricò per qualche settimana in un camper con due produttori che nessuno conosceva (Louis Burrell e Scott Folks) e sfruttando una manciata di piste pescò basi a destra e a manca, ci mise sopra due strofe, e frantumò ogni record. Di vendite, di airplay, di pubblico.
Al tempo: non era tutta merda. L’uomo dimostrò di avere orecchio fine e intelligenza. Mandò nelle classifiche di tutto il mondo ‘U Can’t Touch This’, che prendeva pari pari il brano “Super Freak” di un certo Rick James, un altro che bisognerebbe aspettare per qualche dove per dargli giù botte, e ci rappò sopra qualche tavanata. In quel periodo, si sa, un singolo ‘boom’ era sufficiente per trainare l’album di riferimento. “Please Hammer Don’t Hurt ‘Em” non fece eccezione. Anzi: superò i 20.000.000 di pezzi venduti.
A molti fischiarono le orecchie. Certamente a Prince, le cui basi vennero propinate in ben tre brani: “Pray” (When Doves Cry), “Work This” (Let’s Work) e “She’s Soft And Wet” (Soft And Wet) ma anche a Jacko (“Ti sfido, cazzo, prendiamo due stadi e vediamo chi fa più pubblico”). Ma Michael la prese bene: incalzato dai giornalisti, disse, “Ah, ma io sono un suo fan”. Gnaffete.
Hammer diventò bambole, diventò cartone animato (Hammertime), diventò icona.
Chi vi scrive, incuriosito, comprò l'album a scatola chiusa. Nel senso: leggevo per ogni dove di 'sto tizio ma ai tempi mica era come oggi che, perdio, fai click sul tubo e ascolti un brano. Allora quattordicenne, rimasi più che altro divertito. C'era di peggio e, per l'amor di Dio, c'era anche di meglio.
Hammer si arrichì. Diventò esoso, inavvicinabile. Come da copione, negli anni si mangiò quasi tutto. Basti osservare la genesi dei lavori successivi: "Too Legit To Quit" (1991) ne dimezzò fasti e pretese, seppur creando una discreta breccia. "The Funk Headhunter" (1993), che tentò di incattivire sound e contenuti, calò di dieci spanne facendo giusto capolino nelle chart. "Inside Out" (1995) passò inosservato. Così come i lavori successivi.
Certo è che “Please Hammer Don’t Hurt ‘Em” ha un posto nella storia, e tant'è. Il primo disco rap a piazzarsi così in alto e per così tanto tempo, oggi continua a brillare di luce propria per l'animo prettamente napoletano : futtetenne (mi perdonino gli amici partenopei se il lessico dovesse essere errato). Hammer ignorò regole comportamentali tipiche del rapper di strada, si insaponò, si cosparse di profumo e tirò dritto finché il pubblico, attratto da altre falene, non gli voltò le spalle.
Venne anche a San Remo, nel 1992, a fare il pirla da Pippo Baudo.
Durò poco. Oggi il nostro si arrabatta in vari modi. Nei talent show danzerecci (ah già: era, a detta, un ottimo ballerino), autoproducendo (e chi lo scrittura più ?) materiale inedito quando gli capita, andando in tour con Vanilla Ice (di cui, come si suol dire, tratteremo in seguito) o predicando, perché sì: negli anni, smesso il lusso, è diventato anche pastore. Che Dio ti benedica, figliuolo, disse Stanley Kirk Burrell più comodamente Hammer scendendo dalla Limousine e sistemandosi il collanone.
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