Ma cosa ne sa un nero americano dell’africa?

Perché pur sempre di un americano stiamo parlando per giunta un borghesuccio di buona famiglia. E pure bello agghindato, in bello smoking, a pigiare i tasti del piano per John Coltrane, Miles Davis e altra gente di quel livello lì. Che ne vuoi sapere dell’africa? Sarà che ad un africano l’africa scorre nelle vene, ce l’hanno lì, dicono, attaccata alle viscere. Non se la scrollano di dosso neanche morti. Preso consapevolezza di questo macigno sulle spalle, questa responsabilità inevitabile, un McCoy Tyner in piena maturità artistica, ben rodato come già detto in gruppi di primissimo ordine ed avviato ad una carriera solista ancora piuttosto incerta, Annus Domini 1972, tira fuori quello che ora è un pezzo di storia incancellabile, ma che allora fu un pugno nello stomaco da togliere il fiato: Sahara.   

Ma Sahara, a dispetto del nome, anziché essere un rigurgito di cliché rimasticati milioni di volte, come tale titolo  lascerebbe supporre, è la storia di un grande compromesso, di un’intrigante quanto repellente contaminazione. In questo album le influenze più ancestrali africane si vanno a scontrare e fondere con quelle asiatiche amalgamandosi fino a sparire l’una nell’altra. 

Lo stile percussivo, una mano sinistra formidabile (il quid in più di Tyner), una manciata di brani meravigliosi e liberi (ma non al 100% free), un gruppo alle spalle di spessore tecnico mostruoso ed il gioco è fatto: uno dei più begli album jazz anni 70 è servito.

La maniera di suonare di Tyner rimanda ad una colata lavica o ad un maelstorm in cui ti infili per sbaglio e da cui non esci più e, a seconda dei casi, ad un’esperienza tremendamente terrena o tremendamente mistica.  

Un album grandioso, un immenso (mai come in questo caso questa parola non è sprecata: diffido sempre di questa parola perché il più delle volte è usata a sproposito, per tutto e per tutti, per cani e porci) CAPOLAVORO. 

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