Sì, lo so. La mia prima recensione è un doppione. Il punto è che per inaugurare la mia presenza "attiva" su DeB mi sono praticamente sentito in dovere di dare un'altra chance a questo dischetto e a chi non lo conoscesse ancora, NON perchè ritenga le mie doti di recensore migliori di quelle dell'utente che già ne parlò tempo fa, quanto piuttosto perchè la mia impressione è che fosse stato liquidato come (ORRORE!!!) una versione un po' più rockettara dell'ennesimo gruppo indie britannico. Nulla di più sbagliato.
Questo "McLusky Do Dallas", signore e signori, è fottutamente geniale. Razionalmente non saprei nemmeno cosa mi spinga esattamente ad amarlo visceralmente: ci sono delle volte in cui ascolti un disco e semplicemente ci senti dentro tutto quello che ti piace della musica, tutto quello che avresti sempre voluto sentire in un album; è come se i nostri prima di registrarlo si fossero rivolti alla palla di vetro di un cartomante e avessero fatto un disco apposta per me. Tralasciamo inutili informazioni biografiche sul gruppo facilmente reperibili su Wikipedia e concentriamoci sulla musica: la prima impressione è di ritrovarsi in una bettola gallese malsana e maleodorante di tabacco stantìo (quando in UK si poteva ancora fumare nei locali, ahimè), stonati da una maledetta Guinness di troppo (c'è SEMPRE una birra di troppo, quella che a conti fatti potevi anche evitare), mentre un trucido burino sguaiato ci sbraita nelle orecchie frasi senza senso annotate la sera prima su una Rizla bagnata e gli altri due suoi complici "pestano" la sezione ritmica direttamente nel nostro cervello.
La proposta musicale, per chi ha bisogno di riferimenti oggettivi, serpeggia abilmente tra un punk rozzo e mai scontato e una matrice rock senza fronzoli che brilla della magistrale produzione Albiniana (una garanzia): è incredibile come un produttore americano al 100% abbia centrato in pieno l'atmosfera di un disco così europeo: altro che Oasis e compagnia bella, chi vive o come me ha vissuto a Londra riconoscerà dalle prime due note suonate dai McLusky i suoni dell'Inghilterra. NON del sound britannico, badate bene, ma proprio quei suoni e quegli urli sgraziati ascoltati ad ore improbabili del mattino in un tranquillo weekend di paura a SoHo.
Una delle particolarità di "McLusky Do Dallas" è infatti a mio parere il riuscire a trasmettere una sensazione di pericolo imminente senza mai però sfociare in una vera e propria Apocalisse sonica, creando così un senso di ansia mista ad un divertimento perverso, un po' come aspettare da un momento all'altro di essere caricati da una mandria di skinheads fino a quel momento sospettosamente mansueti sotto gli spalti. E il bello è la facilità disarmante con cui questi tre ragazzacci di Cardiff riescono a creare tutto ciò quasi per gioco, con l'aria di chi non si stia nemmeno sforzando troppo e vuole solo divertirsi e divertire. Partono così a getto citazioni oblique alla saga di Star Wars inframezzate a racconti goliardici ("Lightsabre Cocksucking Blues", nervosissimo pezzo d'apertura), ritratti improbabili di pittoreschi personaggi appartenenti alla cerchia di amici e compagni di sbevazzate della band ("Gareth Brown Says": una band che ti insulta urlandoti "tua madre è una ladra di penne a sfera" NON PUO' e NON DEVE essere presa sul serio) e rivelazioni semiserie sulle abitudini "stupefacenti" dei tre gallesi ("prendiamo più droghe di una funk band in tour", dalla spassosissima "To Hell With Good Intentions").
Non mancano però momenti più "seri" in cui i nostri si lanciano contro i falsi gruppetti di "posers" più attenti al look che al sound ("Fuck This Band" e "Collagen Rock") o commentano con lucidissimo disincanto le condizioni di una società inglese in cui per sopravvivere è diventato necessario sforzarsi a non pensare ("Dethink To Survive") e la rincorsa all'effimero rappresentata dalla TV e dalla febbre da reality show ("What We've Learned").
Da anni ormai un mio personale senso di insoddisfazione nei confronti di più o meno tutta la musica mi ha portato a comportarmi meno da fan e più da ascoltatore: non ho più un mio gruppo preferito (visto che prima o poi TUTTI i mostri sacri fanno il passo falso e deludono, e questo la dice lunga sullo status della musica oggi), solo tanti dischi preferiti a prescindere dal genere o dall'Autore. Il panorama musicale è pieno di gruppetti onesti o addirittura mediocri che, vuoi per fortuna, vuoi perchè azzeccano la cosa giusta al momento giusto, vuoi perchè semplicemente senza essere geni fanno bene il proprio lavoro, danno alla luce ogni tanto dei piccoli gioielli destinati magari a rimanere ineguagliati, nel bene e nel male. E forse è più giusto e democratico così.
In quest'ottica quello dei McLusky è un album comunque perfetto di una band sfortunata che non ha mai goduto della spinta dell'onnipotente NME (che, qualcuno mi faceva notare, in inglese suona tristemente simile ad "enemy") e che molto probabilmente non farà mai la Storia della Musica. Si sono sciolti senza troppo clamore e due terzi del gruppo hanno già formato i Future Of The Left e dato alle stampe un esordio: simpatico, sì, interessante, certo, diverso, anche, ma NON è "McLusky Do Dallas".
Insomma, se volete saperne di più questo è il disco con cui iniziare. Anzi, lasciate proprio perdere i loro altri due album e ascoltate solo questo, fosse anche unicamente per il piacere di poter poi dire a qualcuno che in passato vi ha ferito "Il tuo cuore è del colore della Coca-cola".
LuCa.
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