Quando penso a Meatloaf, mi viene il mente il classico omaccione con i lunghi capelli e con l’atteggiamento e il vestiario da tipico rocker americano con aria ribelle ma con quei quattro menti e quella trentina di chili in piu’ che stonano con il canone ideale di sex-symbol.

Mr. Polpettone negli anni settanta, prima di sfasciarsi definitivamente con la solita tiritera droghe-alcol, aveva una grandissima voce. Non potentissima, ma nel suo unico album degno di essere ricordato, “Bat out of Hell”, (che vendette 25 milioni di copie), la sua voce fece risplendere in maniera divina le composizioni del grandissimo Jim Steinman, pianista e compositore eccelso, autore di moltissimi successi e - non tutti lo sanno - padre della (a mio parere) meravigliosa canzone pop “Total Eclipse Of The Heart”, cantata dalla signora con la voce di carta vetrata, Bonnie Tyler. Meatloaf cantava in un modo particolare: un mix tra un tenore che canta con un solo polmone una canzone hard-rock, Liza Minnelli, Roy Orbison, aggrappandosi alle note alte con disperata dolcezza e cantando le basse con un pathos molto “alcolico”. Ma e’ quando ascolto la canzone che sto per recensire che le mie gambe cominciano a sentirsi come piccoli rami secchi piegati dal vento, come il soffio amico che cerca di spegnere sul nascere una fiamma sul cuore che non sono mai riuscito a debellare definitivamente.

A 15 anni conobbi qualcuno che riusci’ a rompere la monotonia delle mie ultime vacanze al mare con i miei genitori. Vidi quei due occhi di cui non sono riuscito a trovare lo stesso colore e mai lo faro’ anche se fossi in grado di volare e vedere in un giorno tutti i mari e i cieli esistenti. Quel corpo dorato e quei capelli, quell’odore che bruciava le mie notti insonni e le mie giornate stanche, ovattate, in cui la sabbia infuocata diventava ghiaccio appena sfiorava il mio gracile corpo distrutto dalle fiamme della consapevolezza atroce che mai e poi mai sarei riuscito a strappare un minimo contatto fisico, una serata da soli sulla spiaggia dello stabilimento del suo odioso padre. Era come se vivessi in un inferno fatto di zucchero velenoso, di piccole speranze distrutte subito dopo dalla realta’, di frasi strozzate in gola. La canzone in questione, “Two Out Of Three Ain’t Bad”, significa tutto questo. La ascoltai nella hall dell’albergo proprio mentre quegli occhi mi folgorarono. Era come se stessi facendo un viaggio parallelo, in cui dopo l’intro emblematico di pianoforte Meatloaf raccontava quello che io avrei vissuto in due settimane. La musica e le parole si intrecciano in una trama che nasce in sordina ma che cresce, si ferma di nuovo, ricomincia e finisce; mai banalmente, dove le strofe e il chorus sono legati indissolubilmente da un filo logico melodico che non smetterei mai di ascoltare, dove in una ballata rock - anche se priva praticamente di chitarre elettriche - gli archi sono come piccoli bisturi che intervengono nel momento giusto, cioe’ quando Meatloaf spiega alla donna che lo ama che lui “la vuole, la desidera, ma non c’e’ modo che lui possa innamorarsi di lei e di non piangere, perche’ two out of three ain’ t bad…”. E Meatloaf racconta a questa ragazza la sua esperienza, in una trama a specchio, nel senso che quello che le ha appena detto glielo disse la ragazza che, a suo tempo, lui non riusci’ ad amare.

E’ proprio in quello specchio maledetto vidi la mia vita mentre la macchina di mio padre ci riportava a Roma. Gli Eagles in “Desperado” cantavano che “tu vuoi sempre quello che non puoi avere”, e questo ognuno di noi lo sa, almeno credo. Meatloaf dice che “non troverai mai un rubino in mezzo ad una montagna rocciosa, mai troverai oro su una spiaggia di sabbia”. Non posso far altro che confermare. Meravigliosa canzone, come quella sfumatura di colore che sto ancora cercando.

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